Figlio del pittore Nello, da questi aveva ricevuto i primi rudimenti del disegno e della pittura, il cui apprendimento era proseguito dal 1931 al ’37 all’Istituto d’Arte di Porta Romana, sezione Arti Grafiche, con i maestri Francesco Chiappelli e Pietro Parigi, con i quali Alessandrini proseguirà dopo il diploma nel Corso Libero di Perfezionamento del successivo biennio. Notato dalla critica alla mostra collettiva de “La Nazione” nel ’40, il giovane Alessandrini si aggiudicherà il concorso per un affresco da eseguire nel salone centrale della Biennale d’Arte di Venezia, di fatto non avvenuto perché con l’entrata in guerra dell’Italia l’artista venne arruolato nel gennaio del ’41 e inviato a Pola, dove gli eventi bellici lo tratterranno fino al fatidico 8 settembre 1943.
Dopo la guerra, Alessandrini insegnò materie artistiche in varie sedi scolastiche e poi stabilmente a Firenze, dove poté avere uno studio nel “palazzo dei pittori” in viale Milton. Tale stabilità dette modo all’artista di riprendere in pieno la sua attività, nella quale ebbe maggior privilegio l’incisione, che maturerà verso un segno più lirico per mezzo del quale, nella crescente attività espositiva, giungeranno i significativi assensi della I Biennale dell’Incisione a Reggio Emilia nel 1951 e quattro anni dopo gli inviti alla VII Quadriennale Nazionale d’Arte a Roma e alla Biennale dell’Incisione Contemporanea a Venezia.
Al di là di tale evoluzione grafica, riguardo la pittura furono questi anni di travaglio, e solo nel ’56 Alessandrini si sentirà pronto a presentarsi al pubblico fiorentino con una mostra alla Galleria L’Indiano. Da allora la sua attività procederà equamente divisa tra grafica e pittura, anche se nell’attività dell’incisore verranno registrati gli eventi espositivi più importanti: nel ’56 a Buenos Aires per la Mostra dell’Incisione Italiana organizzata dalla Calcografia Nazionale di Roma, nel ’57 a Lubiana in una grande mostra organizzata dalla Biennale dell’Incisione di Venezia. Nell’anno successivo l’artista verrà invitato a Roma all’VIII Quadriennale Nazionale d’Arte e poi a Varsavia nell’ambito della Mostra di Grafica Contemporanea organizzata dalla Biennale di Venezia. A tali presenze internazionali si alternano personali di pittura nelle più importanti gallerie fiorentine e toscane e in numerosi concorsi, tra i quali quello internazionale de Il Fiorino di Firenze. Nel 1998 la moglie Maria ha donato un importante corpus delle sue incisioni (dal 1950 al 1990) al Comune di Santa Croce sull’Arno.
Raffinato incisore, Renato Alessandrini ha riportato in pittura quella pulizia e quell’eleganza che contraddistingue la sua opera grafica.
Degni di grande considerazione appaiono certe composizioni di nature, come il dipinto dell’Iris su fondo scuro del 1950, dove nella trasposta realtà del fiore aleggia la sua astratta essenza. Rabesco che per certe suggestioni cromatiche dovrebbe far ripensare ai nessi di quel mentale percorso che separa, non sempre nettamente, il senso figurale delle cose e la sua riflessa astrazione. Percorso che la generazione di Alessandrini dovette compiere, o almeno considerare, indipendentemente dalle individuali scelte operate, e che per sintetico scavo a volte si era spinto fino al friabile diaframma che separava il concetto del vero dalla sua informe apparenza.
Così, lungo tale tragitto, non paia ozioso pensare alla sublime composizione dell’iris alessandriniano come a una trattenuta istanza formale in procinto, volendo, di sganciarsi dalla connotazione del reale e involarsi per ulteriori sintesi e apporti di materia verso un processo di desinenze come quelle care a Morlotti. Così i dipinti, ancora degli anni Cinquanta, delle Cave di pietra, dove masse cromatiche di sassi e di alberi si mischiano in configurazioni magmatiche, e lo scavo verso il diaframma di cui dicevamo si fa più friabile, fin quasi a elidere ogni parvenza del vero.
Non così però la figura, tenuta sempre al riparo da ogni tentazione di disgregamento, la cui trattazione raggiunge la vetta più alta della pittura di Alessandrini. Nell’ambito di questa, il ritratto e l’autoritratto si pongono al vertice di tale altezza, in ragione di dosati equilibri tra somiglianza fisica e resa psicologica. Stati di grazia dai quali bene affiora l’interiorità di un Mario Luzi, lo spirito invettivo di un Bilenchi, la dolce vivacità di un Betocchi.
Così negli autoritratti: da quello appena lumeggiato e quasi impalpabile del ’49, a quelli più frequenti degli anni a venire mossi da più concitate suggestioni, da pennellate dagli affondi talvolta violenti e accesi da sussulti di colore che rialzano a guizzi il tessuto dei sottotoni di ocre e marroni. E poi quel nero prezioso, concentrato nei ritratti degli ultimi anni nella lunga veste che dà alla sua figura già ascetica un che di sacerdotale, come nell’autoritratto ultimo con la sciarpa azzurra nel quale la sua ferma espressione assume la severa parvenza di un’interrogazione allusiva, che pare cercare nell’osservatore la conferma a una “scadenza” ormai prossima.
Un’indagine, quella esercitata nell’autoritratto, che pone la verosimiglianza esteriore non come arrivo ma come punto di partenza; non come fine, ma mezzo per ricercare, al di là dell’espressione, la propria interiore nudità. Un concetto che è frutto di una precisa temperie, al cui centro sta la personalità dirompente di Ottone Rosai. Mutuata agli inizi degli anni Quaranta l’autoricognizione espressiva di Marcucci e di Faraoni, Rosai farà suo l’impietoso scrutarsi fino al fondo della propria anima. Il giovane Alessandrini aveva conosciuto il maestro nel 1938, quando Pietro Parigi lo aveva condotto assieme a Enzo Faraoni al suo studio di via San Leonardo.
Anche per Alessandrini, come del resto per Faraoni, l’autoritratto sarà un metodico, reiterato spiare se stesso per carpire, al di là dell’inerzia della posa, le proprie interne inquietudini. Sempre più spesso Alessandrini si cimenta in questa autoanalisi, condotta, come scrive Parronchi, in “una verità-umiltà senza fronzoli e senza ostentazione”.
L’Autoritratto in blu, ottenuto per campiture veloci, caratteristiche della sua pittura, si articola in una massa densa e piramidale, costituita da una scura veste venata da trasalimenti di ocre e di blu che in alto si apre sul chiaro della camicia, risalendo con dicotomia di linee fino al posteriore del collo e offrendo, quasi incorniciata, la testa del pittore. Il suo volto composto, costruito nelle linee asciutte del naso e della bocca, attrae per la propria severità introspettiva incentrata sulla carica intensa dello sguardo.
M.M.