Figlio di un ingegnere, a quindici anni il giovane Annigoni si trasferisce con la famiglia a Firenze, dove dopo il liceo si iscrive ai corsi di nudo presso il Circolo degli Artisti e nel 1927 all’Accademia di Belle Arti: a pittura con Felice Carena, a scultura con Giuseppe Graziosi, ai corsi d’incisione con Celestino Celestini. Istintivamente portato all’indagine della figura, il giovane studia gli antichi attraverso la pittura tedesca e fiamminga, registrandone le raffinatezze del segno e del colore. Nel 1932 tiene la sua prima mostra personale a Firenze nella prestigiosa sede di Palazzo Feroni, recensita da Ugo Ojetti sul Corriere della Sera, e nello stesso anno vincerà il Premio Trentacoste. Nel ’36 espone alla Casa degli Artisti a Milano, ottenendo ancora un successo ma anche critiche per la sua concezione legata al passato.
Con quella coerente ortodossia verso “la vera pittura”, aderisce nel ’47 al manifesto programmatico di Orio Vergani e Gregorio Sciltian dei “Pittori Moderni della Realtà”, assieme ad altri artisti tra i quali i fratelli Bueno, sotto la cui insegna esporranno nello stesso anno alla Galleria milanese dell’“Illustrazione Italiana”, a Firenze e poi a Roma con una sala alla V Quadriennale, facendo aumentare le contestazioni per quella concezione di capillare realtà che poneva la sua pittura come esibizione di virtuosismo formale; polemiche puntualmente rincarate dal temperamento battagliero dell’artista.
Con gli anni Cinquanta inizierà per Annigoni quella fama internazionale conseguita tramite importanti commissioni di ritratti: da Elisabetta regina d’Inghilterra e alla sua famiglia, alla regina di Danimarca; da J.F. Kennedy a Giovanni XXIII; dallo Scià di Persia e Farah Diba a Margot Fonteyn; da Lord Moran a Salvatore Ferragamo. Altrettanto importante sarà la sua attività di pittore sacro, che lo porterà a dipingere ad affresco come a tempera grassa anche in grandi proporzioni dopo una prima esperienza di affreschista compiuta avanti la guerra nel fiorentino Convento di San Marco. Nel ’53 dipingerà la grande tela del Sermone della Montagna per il collegio “Ghisleri” di Pavia, e nel ’63 il San Giuseppe lavoratore per la basilica fiorentina di San Lorenzo, tema che riprenderà sette anni dopo in affresco nella chiesa di San Giuseppe al Galluzzo. E ancora in affresco eseguirà i grandi cicli nella chiesa parrocchiale di Ponte Buggianese (1967-78) e nella riedificata Chiesa Maggiore nell’Abbazia di Montecassino (1978-80). Nel 2008 è stato inaugurato presso Villa Bardini in Costa San Giorgio, 2 a Firenze il museo monografico permanente dedicato a Pietro Annigoni, uno degli artisti più singolari del secolo scorso.Si tratta di uno splendido spazio accuratamente resaturato dall’ Ente Cassa di Risparmio e dalla Fondazione Monumetale Bardini e Peyron che raccoglie una selezione accurata delle opere del maestro compiuta tra differenti periodi, tecniche e soggetti. L’attività lunga e proficua del maestro viene proposta in una centro espositivo che si propone di promuovere evnti temporanei in tema con l’operato di Annigoni o con altri maestri del XX secolo. Per una maggiore conoscenza del maetro è interessante consultare l’intervista riportata sul sito: www.raiscuola.rai.it/articoli/pietro-annigoni-la-creazione-dellopera/4819 26 gennaio 2012
1963 circa, disegno a tecnica mista su carta, cm 50 x 65, firmato a penna in basso a destra Pietro Annigoni C+++ LXIV, Inv.: 12138/2, donazione di Benedetto Annigoni.
Questa tecnica mista fa parte del materiale di studio per la realizzazione di Solitudine I, grande dipinto a tempera grassa portato a compimento nel 1963.
Rispetto a tale opera (alla quale seguirà la Solitudine II ) lo studio in questione è limitato a poche figure, e dell’opera finita la maggiore memoria rimane nella figura in primo piano con la mitria, anche se questa appare variata nell’opera compiuta nel portamento, sì da assurgere a perno scenico, elemento svettante sul blocco oscuro delle figure dei sacerdoti, delle suore e dei laici che in un rarefatto e spoglio panorama muovono il primo piano, mentre una processione di vescovi biancovestiti converge dal fondo del dipinto e procede quasi affiancata ma a sé stante, sempre isolata, in secondo piano.
Il nostro studio non ha ancora il complesso movimento che mostra l’opera finita nel suo duplice flusso di personaggi avanzanti in una rastremata atmosfera ottenuta da ocre, da bruni e da trasparenze tipicamente annigoniane. Ma tuttavia il lavoro già mostra afflati coloristici e dinamici caratteristici dell’artista, espressi dal tipico interloquire tra segno e colore: connubio che carica il segno della forza cromatica di questo e il colore della perentorea forza di quello, similmente a quanto visibile in opere a tempera grassa e più specificamente in affresco, dove anche le tracce di spolvero vengono, in qualche particolare, lasciate a vista. È l’autografa, inalienabile valenza dell’Annigoni grande disegnatore e superlativo incisore, punto di partenza di quella maestrìa che pure pesò e ha continuato a pesare come una sorta di equivoco di fondo sulla sua reale e complessa caratura artistica che, negli anni postbellici movimentati dagli esiti astratti e informali e in quelli dei decenni successivi, servirà quale principale capo d’accusa per cercar di liquidare la sua arte come formale virtuosismo fuori dalle istanze contemporanee.
Due mostre, quella mugellana di Borgo San Lorenzo e quella fiorentina di Palazzo Strozzi, hanno mirato ad approfondire, al di là della riconosciuta “formale abilità” e delle conseguenti celeberrime qualità di ritrattista e di affrescatore, le sue connotazioni meno appariscenti ma non meno importati. La prima, con pitture del paesaggio mugellano ma incentrata realmente su un numeroso corpus grafico che ha messo ulteriormente a fuoco le già pur note capacità di sintesi incisoria, con la quale in un lungo arco temporale sono stati trattati paesaggi, ma principalmente e più essenzialmente l’uomo. L’ uomo nelle sue molteplici variabili psicologiche e sociali, non di rado causticamente sorpreso nei suoi tic quotidiani fino alle “miserie e nobiltà” dei suoi mendicati: scene e allegorie di solitudini che parallele sfilano, pur su opposta riva con le solitudini degli omìni rosaiani.
Nella seconda mostra, a fianco delle tematiche più note, è stato dato spazio ai grandi dipinti a sfondo “filosofico” e sociale. I quali, al di là d’ogni polemica, pongono l’artista nel quadro della realtà del proprio tempo. Una dimensione, quella del sociale, non certo sconosciuta ma più in ombra, plasmata direttamente da certe ‘inquietudini dei tempi’ dalle quali affiora l’uomo, sia per corali istanze esistenziali, sia ancora nella sua emarginata singolarità di diseredato: “Uomini senza volto”, come ha acutamente notato nel suo saggio Anita Valentini, che “sono i vinti del loro tempo e della loro storia, ai quali l’artista riesce a dare dignità se non voce, poiché essa pare abbia rinunziato in anticipo ad essere ascoltata per il puro fatto di non poter gridare più forte di altre.”
E ancora l’Annigoni delle istanze sociali, espresse in grandi composizioni come le due citate Solitudini: dipinti epifanici, scaturiti nel clima del Concilio Vaticano II, in quella svolta epocale, carica d’interrogativi se non d’inquietudini, che, travalicando l’evento religioso, andavano percorrendo l’intera società. Da ogni parte si guardava, con opposti timori politici, all’indirizzo novativo della Chiesa, interrogandosi sulle nuove aperture e sulle future ‘pressioni’ secolari della sua missione ecumenica.
Traendo come altre volte spunto da istanze contingenti, Annigoni si avventura quale artista del suo tempo in una propria necessità di verifica, scavando negli eventi i nessi e il fine, ansioso di “indagare nella fede - come lui stesso affermerà – per quanto di umanità e di dramma è contenuto nella religione”.
“Non si voleva considerare – ha osservato giustamente Raffaele De Grada – l’apporto drammatico di un artista che portava in sé quel turbamento della psiche di cui proprio a Firenze Giovanni Papini, studioso di Freud, di James e di Nietzsche era stato dai primi anni del secolo la più sensibile delle antenne premonitrici.” Così, trasponendo per simboli quella “stupefazione secolare” che Ferruccio Olivi osserverà gremita “della conturbante sacralità del pensiero di una fede che combatte per ravvisare se stessa”, Pietro Annigoni, con il peso immane del suo virtuosismo, si stabilirà in quell’ anelante partecipazione. Che, nel fazioso clima laico e ateizzante di quei decenni, risulterà altrettanto scomoda della sua stessa perfezione formale, contribuendo al mantenimento di quell’ostracismo che fin qui ha fatto schermo all’effettivo valore della sua opera.
M.M.
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