Michele Dantini è critico d’arte e curatore, fotografo (ha studiato fotografia con Michael Yamashita), videomaker, autore di diari di viaggi. Tra le mostre più recenti: 2001 Children’s Art Museum, Palazzo Pubblico, Magazzini del Sale, Siena, presentando immagini di icerbergs insieme ad interviste con Artic, ecologisti, e biologi marini. Nel 2002 Strange stories, Palazzo Strozzi e Villa la Loggia, Firenze, audio e video installazioni con immagini delle più grandi città africane, costruzioni coloniali e studi etnonografici provenienti dai musei locali.
Five (un) ambiguos statements upon distance and beauty, Galleria Alessandro De March, Milano, una sorta di connubio tra fine arts e reportage socio-ecologico. Un esperimento sul tema del “viaggiare nelle vicinanze”, teorizzato dall’antropologo Marc Augè, quindi una indagine su di un paesaggio a noi vicino, da qui fotografie botaniche, attraverso un cambiamento di scala i soggetti diventano di grandi dimensioni, ci sorprendono e ci fanno osservare, con maggior attenzione i fiori comuni, che normalmente, nel quotidiano ignoriamo.
Nel 2003 la mostra Working, presso la Stazione Leopolda, in Firenze, dove ha immaginato uno spazio pubblico (GeaLab), per il futuro Centro di Arte Contemporanea di Firenze; partecipa a Weeds, X Biennale Internazionale di Fotografia, Fondazione Italiana di Fotografia, Torino. Ricordiamo, inoltre, che il suo libro Diario nambiniano, del 2001, ristampato nel 2003, uno studio sulle politiche e le istituzioni del Sud-Africa, è stato nella shortlisted per il premio Paolo Biocca 2002, organizzato dalla società Italo Calvino e dalla rivista L’indice.
I suoi progetti vertono sui temi della mobilità, della geografia politica e sociale da un lato, sui processi mentali implicati nei comportamenti di esplorazione e attenzione dall’altro. Spesso concepiti in occasione di viaggi in luoghi dislocati e relativamente remoti, video, fotografie, text-works esplorano le polarità esistenti tra la ricerca sul campo e estetiche fine arts.
Frammenti di story-telling mirano ad articolare una differenza culturale, a mostrare una complessità (ecologica, sociale, culturale), spesso trascurata dai media occidentali, a stimolare atteggiamenti non egemonici. Scelte antinarrative e antidocumentarie sollecitano al tempo stesso risposte puramente sensoriali nello spettatore e lo conducono a confrontarsi in prima persona con esperienze di smarrimento, sorpresa, riflessività, stupore. Tra le mostre personali ricordiamo: Zmeiniy Project, Tsekh Gallery, Fedorova Cultural Foundation, Kiev, 2010; Cythère, Villa Bardini, Firenze, 2009; Baedeker, Parco Bardini, Firenze, 2007; A Green Nothing, Fondazione Merz, Torino, 2007; No breaking news, Kunsthalle Montforthaus, Feldkirch [A], 2004. Nelle esposizioni collettive, tra le altre ha partecipato a: La revanche de l’archive photographique, Centre de la Photographie, Genéve, 2010; Green Platform, Centro di cultura contemporanea Strozzina, Firenze, 2009; 1988. Vent’anni prima, vent’anni dopo, Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Prato, 2009; Schreibstation, Stiftung Galerie für Zeitgenossische Kunst, Leipzig, 2004.
Così viene presentata l’opera di Michele Dantini all’esposizioni Nel fiume in piena: Nuovo paesaggio urbano tra arte e architettura, realizzata a Villa Renatico Martini nel 2011:
“Dantini concentra la sua ricerca nel tentativo di destrutturare il mito moderno di un’architettura razionale e standardizzata. I suoi frequenti viaggi tra popoli extraeuropei non cercano narrare un “altro” uomo esotico e differente, ma mettono in discussione la nostra stessa percezione dell’Occidente, della sua idea di natura e di architettura.
La serie di disegni Marawa Drawnings, concepita appositamente per la mostra, rilegge alcuni particolari architettonici della villa neoclassica che ospita il Mac,n. L’artista ha infatti ricercato forme e stilemi che tradiscono l’ambizione neoclassica dell’architettura in favore di elementi della tradizione coloniali. Ferdinando Martini, committente della Villa ed intellettuale e politico dell’Italia tardo-ottocentesca, era stato infatti governatore delle colonie italiane del periodo in Africa, vivendo nella città di Marawa.
I disegni sono così un percorso individuale e collettivo che tenta di ridurre la finzione della distanza coloniale, introducendo una dimensione umana e prossimale dell’architettura, piena di spazi non scritti.
“La natura è invece questo rifornimento meraviglioso che non è spettacolo; […] tutti questi elementi non danno una conclusione per la quale si possa dire: la natura è questo. No. L’apporto della natura è appunto in questa problematica continua: un discorso aperto che non potrà mai essere concluso.
Alla natura si tende spesso ad imporre una misura umana; specialmente in America alcuni architetti hanno voluto esaltare la natura annientandovisi dentro. […] Ricordo invece di aver visto in non so quale costruzione di Michelangelo un piccolo particolare nel riquadro delle finestre, un piccolo elemento chiaroscurale, una piccola conchiglia, ecco in quel chiaroscuro semplicissimo c’era tutta la natura, c’era il mare, c’era l’universo intero”.(Giovanni Michelucci)”