In una breve nota autobiografica conservata oggi dal marito Umberto, Almina Dovati Fusi racconta come fin dalla più giovane età la passione per l’arte tracciò il percorso della sua vita: “Posso dire di aver disegnato da sempre, fin dall’età di cinque anni […] Privatamente iniziai gli studi artistici, giovanissima prima con la scultura, poi con la pittura”.
Almina Dovati Fusi nasce a Carrara, nel 1939 si iscrive a Firenze al Corso Libero di Nudo presso l’Accademia di Belle Arti diretta allora dal Maestro Felice Carena. Il corso dura solo tre mesi, pochi per inserirsi nella vita artistica della città, ma sufficienti per iniziare con essa un rapporto strettissimo: “Che Dio ci risparmi Firenze, almeno Firenze”, così si legge in una lettera del gennaio 1944, in quei giorni di occupazione nazista, scritta al marito e da lui stesso oggi conservata.
L’amore per Firenze, la determinazione di continuare l’attività artistica, la portano negli anni del dopoguerra a stabilirsi definitivamente nel capoluogo toscano. In questo periodo dipinge e disegna molti scorci della città, molti della zona di Porta Romana, dove allora abitava, sempre accompagnati da un “pezzo” di natura: alberi, giardini, fiori, brevi orizzonti di verde che lasciano intravedere il ricordo sempre vivo della campagna dell’infanzia. Una natura che negli anni della maturità sarà al centro della sua visione artistica, una natura esplorata anche solo per frammenti, ma rivestiti di profondi significati metaforici. Un’inesauribile varietà di forme legate l’una all’altra dal perpetuo rinnovarsi della vita, interpretate come pretesto iniziale per dar corpo alle emozioni che l’artista porta in sé, nel fecondo lavoro di ricerca di un proprio codice espressivo.
Alla fine degli anni Cinquanta intraprende in maniera decisiva la strada dell’incisione; la lastra diviene il foglio di carta ideale e come lei stessa dirà, l’acquaforte diverrà il mezzo più adatto ad esprimere la poesia del suo mondo interiore. Sicuramente importante l’incontro avvenuto in questi anni con l’artista pistoiese Francesco Chiappelli. Da questo rapporto, trasformato poi in una sincera amicizia, la Dovati acquisisce una sicura padronanza dei procedimenti tecnici in materia d’incisione, arrivando così a definire scelte precise e definitive in accordo con la sua sensibilità.
Nel 1961 espone i primi lavori alla Galleria Vigna Nuova raccogliendo un vivo interesse. Nel 1968 è chiamata a partecipare al Comitato della II Biennale Internazionale della Grafica a Palazzo Strozzi, poi invitata ad esporre alla successiva edizione del 1972; si tratta di un riconoscimento a livello nazionale e da quel momento in poi la sua presenza alle più importanti manifestazioni artistiche sarà costante.
Le sue opere figurano presso Musei e Collezioni private e pubbliche, in Italia e all’estero. Una raccolta di acqueforti e lastre si trova al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi e nella Collezione della Biblioteca Marucelliana e alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.
“… le forme sembra si rincorrano nello stretto spazio della lastra, i fiori neri sembrano vogliono uscire, combattere con altri fiori e foglie, tutto è reso vivo dal segno – segnato, quasi una ragnatela che imprigiona la magnolia nera come se la natura proteggesse se stessa all’esporsi ad occhi indiscreti …”. Così scrive Domenico Viggiano a proposito di quest’opera nella presentazione dell’artista all’esposizione dell’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze. (D. Viggiano, Lirismo e magia nelle acqueforti di Almina Dovati Fusi, in AA.VV., Acqueforti e disegni di Almina Dovati Fusi (catalogo della mostra), Firenze, Tip. B. Pochini, 1998).
Come tutte le opere, si parte dall’osservazione diretta ma per deviare subito nella realtà onirica dove l’apparente dimensione domestica e quotidiana dei soggetti si rovescia in un mondo ricco di preziose trame e segrete suggestioni, ma dove dall’intrico di tessuti di steli e foglie traspare pur sempre la sua veridica immagine. I soggetti prediletti di Almina Dovati Fusi sono da ricercare nel mondo della natura, affrontano infatti preferibilmente tematiche costanti date da fiori, radici, alberi, sistemi di foglie, ma in ognuna di queste immagini traspaiono sensazioni diverse, nell’avvertire la vita più segreta che esse rivelano. Accade così che i petali neri della magnolia alludano a segreti moti dell’animo, che si agitano nei meandri della memoria.
Il segno è finissimo, una linea sottile e fluida si infittisce per creare il nero vellutato dei petali della magnolia, che potrebbe essere così anche nera nel suo diradarsi in forme leggiadre e delicate ma prepotentemente vitali.
Una grande sapienza tecnica riconducibile forse, come suggerisce Annamaria Petrioli Tofani, alla lezione di Francesco Chiappelli “al Chiappelli, in particolare, mi sembra rimandi la duttile luminosità del suo tessuto lineare, frutto di un’applicazione tecnica e severa priva di compromessi” (A.M. Petrioli Tofani (a cura di), Acquisizioni 1974-1984 del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi di Firenze, Firenze, L.S. Olschki ed., 1984).
Ci sono fiori, foglie, conchiglie, ma come a sottolineare la caducità di una fragile bellezza, la presenza in primo piano di un tronco d’albero ormai spoglio, ma che si erge ancora in un estremo anelito verso l’alto. Questa natura “maligna” offre alla Dovati spunti per altre riflessioni, forse un monito come suggerisce Mina Gregori: “Un altro suo tema ricorrente ci rappresenta degli scenari di morte, di apocalittici (atomici?) sconvolgimenti vegetali, di radici secolari e di superstiti alberi defogliati. Di questo turbamento espresso per segni e non per parole dobbiamo cogliere il monito” (M. Gregori, in AA.VV., Acqueforti e disegni di Almina Dovati Fusi, Firenze, Tip. B. Pochini, 1998). Ci sono fiori, foglie, conchiglie, ma come a sottolineare la caducità di una fragile bellezza, la presenza in primo piano di un tronco d’albero ormai spoglio, ma che si erge ancora in un estremo anelito verso l’alto. Questa natura “maligna” offre alla Dovati spunti per altre riflessioni, forse un monito come suggerisce Mina Gregori: “Un altro suo tema ricorrente ci rappresenta degli scenari di morte, di apocalittici (atomici?) sconvolgimenti vegetali, di radici secolari e di superstiti alberi defogliati. Di questo turbamento espresso per segni e non per parole dobbiamo cogliere il monito” (M. Gregori, in AA.VV., Acqueforti e disegni di Almina Dovati Fusi, Firenze, Tip. B. Pochini, 1998).
Si tratta di una serie di sette incisioni eseguita nei primi anni Ottanta. L’artista riprende lastre già lavorate reincidendole ancora; non si tratta di stati diversi della stessa incisione, ma di una nuova lastra che partendo da un’immagine precedentemente riprodotta viene ripensata con una nuova immagine sovrapposta. Una prassi che può indurre ad una doppia lettura: da una parte una sorta di ansia di comunicazione che non ammette interruzioni, un racconto ininterrotto attraverso i segni riannodati, ripensati e perfettamente ricongiunti; frammenti che si ricompongono in una continuità creativa che si rigenera attraverso un filo interiore ma che ancora una volta passa attraverso il racconto della natura. Dall’altra parte invecel’artista ormai nella piena maturità, si concede virtuosismi grafici che solo una sicura padronanza del mezzo tecnico può realizzare, lei stessa racconta dell’abitudine a incidere direttamente senza mai ricorrere a disegni preparatori. Questa maestria del segno, che conduce al perfetto operare della mente con la fantasia, indica in queste opere il raggiungimento di una sintonia, capace di recuperare osservazioni del passato per intrecciare dialoghi con l’avvenire.
Tutta l’opera di Almina Dovati Fusi si lascia difficilmente decifrare nei suoi rimandi culturali e nelle sue frequentazioni. Mina Gregori scrive che l’artista che più ha lasciato un segno profondo nella sua arte è stato il suo maestro Felice Carena: “La sua impronta è rimasta nella trama del segno che cerca la sua definizione chiaroscurale” (M. Gregori, in AA.VV., Acqueforti e Disegni di Almina Dovati Fusi (catalogo della mostra), Firenze, Tip B. Pochini, 1998); per Antonio Paolucci invece si può parlare di suggestioni culturali date da “il romanticismo visionario di Böcklin, per esempio, ma anche il fascino del tempo sospeso, delle vite silenti di Morandi” (A. Paolucci, in AA.VV., Acqueforti di Almina Dovati Fusi, Firenze, Tip. B. Pochini, 1983, p. 9). Difficile non pensare alla grafica orientale, all’arte giapponese dell’Ukiyo-e, o alla poesia simbolista indagatrice del mistero eterno della vita. In Sovrapposizione n. 4 le problematiche di una contestualizzazione riemergono tutte. Nella serie il linguaggio, pur partendo dal dato reale, per la sua particolare procedura arriva ad una sorta di astrazione data dalle immagini sovrapposte, quasi il desiderio di trasportare il dato reale, una volta fissato sulla lastra, all’interno di un altro emisfero della conoscenza, raggiungibile solo attraverso elementi simbolici e metaforici, costruiti da un linguaggio rispondente solo alla sua interiorità.
In questi anni forse l’artista ripercorreva con le Sovrapposi-zioni l’ampio dibattito scaturito nell’arte italiana dal dopoguerra in poi, nella divisione fra astrattisti e figurativi. Almina Dovati appartata e lontana, ma pur presente e vicina alla contemporaneità, tentava di esprimere una risposta ad una vicenda artistica su cui lei stessa si interrogava: “L’arte cammina e deve camminare – Ma verso che cosa?” (da un appunto autografo conservato da Umberto Fusi) e indicava una finalità dell’arte: “Per me la pittura è ‘poesia che si vede’ come ha detto un grande artista del passato – L’artista dà una visione tutta sua particolare del mondo che lo circonda: scopre e rivela agli altri ciò che essi non vedono ed è a questa rivelazione che dà l’impronta della sua personalità” (ivi). Arte come rivelazione quindi, ma non separata dalla realtà: “Io non rimango staccata dalla realtà che interpreto … Un oggetto, un paesaggio, un’immagine entrano nel mio mondo e io trasfigurandoli li ricreo” (ivi). E ancora più evidente allora tutta quella poetica intimista catterizzante l’intera opera della Dovati, che molto rivela della sensibilità novecentesca ereditata dalla cultura artistica non solo fiorentina, e come suggerisce Carlo Sisi, è possibile tentare anche una suggestiva analogia tra l’immaginazione floreale dell’artista toscana, incline alla trasfigurazione simbolica della realtà e i pittori preraffaelliti inglesi, i quali “a loro volta rinverdiscono brani di poesie pascoliane e la pertinale volontà – ereditata dalla cultura artistica del Novecento – di celare sotto il semplice involucro dell’immagine il mistero inquieto della vita” (C. Sisi, in AA.VV., Acqueforti di Almina Dovati Fusi, Firenze, Tip. B. Pochini, 1998, p. 8).
L’immagine del soggetto è fra i più cari all’artista: fiori, in una composizione verticale, costruita con misurati passaggi di grigi, dalla densità dei neri degli steli, che sembrano tracciare un percorso in un continuo ascendere, al bianco di certi petali tale da creare un’atmosfera diafana e astratta. Il segno ancora una volta è il vero protagonista dell’opera, un segno vibratile, sicuro, che si muove con incisività fissando sulla lastra le immagini visive rielaborate conseguentemente dalle più volatili percezioni sensitive.
Vittoria Corti parlando del percorso artistico di Almina Dovati, in occasione della personale Come gioielli alla Biblioteca Marucelliana di Firenze, divide in tre periodi l’intera sua attività: nel primo la pittura, nel secondo il disegno, nel terzo l’incisione. Il disegno anticipò nella scelta dei temi le acqueforti, una tecnica quella disegnativa che praticò con dedizione ossessiva, appuntando continuamente schizzi, foglietti che riempiva nelle sue passeggiate in campagna.
Foglio d’album fa pensare a questi momenti; si tratta di tre lastre che annotano fiori, i fiori dei nostri campi, ma il loro contesto naturale non esiste più, l’inquadratura è quasi fotografica e l’obbiettivo è puntato solo sugli intrecci di foglie, e sull’esplosione di corolle. Come riflessioni ad alta voce, visivamente scandite nei corsi e ricorsi dei bianchi e neri, fra il limitare degli indugi e della memoria.
Dal movimento delle foglie, di fragili florescenze, è esaltata la perfezione delle forme della natura, quasi la ricerca di un ritmo. Almina Dovati era una grande appassionata di musica, lei stessa suonava il violino, questo aspetto è stato messo in luce più volte dalla critica come elemento fondamentale nella sua opera: “Ma la caratteristica più importante e dominante, è la qualità musicale. L’Almina, infatti suonava il violino come Redon. La musicalità è nella linea continua, melodica e nel ritmo che percorre e fa palpitare tutta l’opera. Ed è soprattutto per questa musicalità che l’immagine esprime cose che stanno fuori, al di là dei connotati realistici” (V. Corti, Il percorso artistico di Almina Dovati Fusi, in Come Gioielli. Le acqueforti di Almina Dovati Fusi (catalogo della mostra), Firenze, Tip. B. Pochini, 1994).
Anche i titoli delle opere possono evocare significati reconditi al di là dell’immagine cui essi sono destinati. Il bosco ritorna spesso fra i soggetti dell’artista. Gli alberi diventano gli unici abitanti, interpreti dei segreti dell’animo; la natura, nella eterna perfezione delle sue innumerevoli forme, si apre in radure definite dai giochi chiaroscurali dei bianchi più luminosi e i neri più profondi. I rami spogli, contorti, alcuni spezzati, altri ancora tesi verso l’alto. Una presenza umana che non appare, ma che si agita nell’inquieta penombra boschiva.
Nel percorso artistico della Dovati, la scelta definitiva dell’incisione, quasi a ribadire l’antico primato toscano della tecnica disegnativa, coincise con l’abbandono della figura umana. A testimoniare la presenza di un’umanità assente rimanevano conchiglie, radici, tronchi, fiori e foglie di fremente vitalità. Anche in quest’opera, dove evidente è il richiamo ai monti della campagna vicino Carrara, la traccia della civiltà è data dal borgo arroccato ed antico, su cui la fine tessitura dei segni e dei grigi deposita i ricordi di un tempo passato. La natura solitaria che circonda il paese rimane sospesa tra il reale e gli appunti della memoria, ma il senso della solitudine sottintende ancora una volta stupore ed emozioni.
“Entrare in un giardino è stato sempre, per me, come fare un breve viaggio; è un piccolo mondo sconosciuto, racchiuso, dove la vita palpita, dove tutte le piante hanno la loro storia particolare […] improvvisamente trovarsi in mezzo alle piante che fremono di vita, provoca in noi una strana sensazione; è come un richiamo (che ci rende pensosi) alla brevità della vicenda umana che passa velocemente e alla vita delle piante che può durare più a lungo della nostra”. Così Almina Dovati scrive a proposito di una visita al giardino del Museo Archeologico di Firenze (A. Dovati Fusi, Con segni e con parole. Il giardino incantato del Museo Archeologico, Novara, tip. Francesco Sarri, 1996, pp. 3-4).
Tre lastre in sequenza rappresentanti alberi e una strada che percorre il sottobosco. Ancora una volta i ricordi si concentrano negli appunti del racconto e lo stesso titolo della lastra trasporta le immagini oltre il tempo e lo spazio, nel giardino della memoria.
Ancora una serie; sono sette lastre datate gli ultimi anni del 1980. Il titolo si raccorda sempre all’interno dei temi prediletti dalla Dovati: sono fantasie floreali date dall’intreccio di foglie, steli, petali, nel contrasto di bianchi e neri costruiti da un segno nitidissimo frutto ormai di una raggiunta sapienza tecnica del mezzo espressivo.
E’ l’ultima lastra della serie Fantasia, la tiratura è limitata a quindici esemplari, così come per tutti gli altri suoi lavori dove il numero delle stampe non supera mai questo numero.