Figlio di un capostazione originario dell’empolese, Enzo Faraoni trascorse la sua prima giovinezza tra le campagne di Montelupo e di Carmignano. A undici anni si iscrisse all’Istituto d’Arte di Porta Romana, sezione Arti Grafiche, dove insegnavano Francesco Chiappelli e Pietro Parigi, diplomandosi nel ’39 con una tesi su Van Gogh. Fu Pietro Parigi che instradò la sua forte connotazione per il segno e per il colore sul congeniale percorso della lezione di Viani. E sarà lo stesso maestro a condurlo, assieme ad Alessandrini, a conoscere Ottone Rosai. La lezione di Viani si riverbererà nei toni fondi di un Autoritratto del ’38 e nel coevo Ritratto del padre capostazione. Quella di Rosai, più ampia e coinvolgente, affinerà la sua nativa capacità di ricerca sulla verità interiore delle cose, facendolo concentrare sulla figura umana e sui ritratti, ma trovando anche una congeniale poetica nello studio della luce e dell’ombra. Dopo un’importante collettiva a San Miniato nel ’39 e quella dell’anno successivo a “La Nazione” – dove per la prima volta verrà notata la sua “vena” inalienabile di “dolore” – Faraoni terrà la sua prima mostra personale a Firenze nel ’42 alla Galleria Il Fiore, con la quale inizierà quel positivo corollario di giudizi da parte di tutta la maggiore critica italiana. Importante sarà, nei primi anni del dopoguerra, il suo coinvolgimento in dibattiti riguardo alle scelte programmatiche tra forma e astrazione al caffé delle Giubbe Rosse e in seno al movimento di Arte d’oggi.
Nella sua densa attività espositiva in Italia e all’estero, sono da registrare gli inviti alla Biennale di Venezia nel ’48, nel ’50, nel ’54 e nel 56 come alle quattro Quadriennali di Roma dal ’47 in poi. Presente alle esposizioni del Premio de Il Fiorino, che si aggiudicò nel ’61, la grafica di Faraoni riceverà nel ’68 il I Premio a Venezia nella Biennale della Grafica. Tra le molte mostre personali del dopoguerra, da segnalare le antologiche del ’69 alla Galleria Pananti, del ’74 alla Galleria Falsetti e a Bagni di Lucca con la cura di Pier Carlo Santini. Nel 1996 l’artista ha donato al Centro Attività Espressive di Villa Pacchiani a Santa Croce sull’Arno, 225 incisioni eseguite dal 1939 al ’95. Attualmente è titolare della Classe di Pittura all’Accademia delle Arti del Disegno.
Assieme al tema della figura, la natura morta costituisce l’asse portante della pittura di Enzo Faraoni. Nature vive o morte che proustianamente vivono del riflesso d’una loro vita interiore, di suggestioni balenanti su fondi spesso oscuri ma articolatissimi per luci improvvise e sottotoni di marroni, di ocre e di grigi che si propagano alle strutture attorno al soggetto, tra fughe assonometriche dei tavoli e dei trespoli nello studio dell’artista, in un guizzare di luce e coni d’ombra che creano dinamici suggerimenti di contrappunti astrattivi.
L’opera qui esposta è uno dei tipici esempi di quei tavoli ingombri di oggetti, di ortaggi e di fiori, concepita in quel “disordine” che introduce alla congeniale dimensione dell’artista, alla sua volontà di cogliere la verità delle cose nel loro manifestarsi senza artificio. Un disordine solo apparente, registrabile quale “vivezza” del quotidiano, ma che tuttavia reca in sé rigori di cadenze e di ritmi: così quella fuga di piani, con al proscenio una minima culinaria dominata, al centro del tavolo, dalla presenza di due rami in fiore conferenti al dipinto linee di forza centrifuga, contenuta agli estremi dalla marcata presenza dell’ombre.
Pittura disadorna, aliena da ogni superflua eleganza, ma viva e “tesa in una sua coerenza sommessa e ferma”. Così da decenni le nature morte di Faraoni prendono vita da questi tavoli senza sostanziali mutamenti formali, ma evolvendosi tuttavia nel loro ductus pittorico per interne vicissitudini maturate di pari passo all’uomo, a quel suo senso antieroico della vita e a quella visione dolorosamente poetica dell’esistenza, con la consapevolezza del suo inesorabile corso. Questo narra l’elegia faraoniana con la sua luce fuggente che pare elogio dell’ombra, vivente per brevi accensioni cromatiche, per esigui balenii di materia sulle cose, sulle fisionomie delle sue numerose modelle, sul suo medesimo autoritrarsi impietoso, approfondito giorno dopo giorno mediante una tensione trascendente, vero e proprio viaggio interiore compiuto attraverso l’intima sostanza dell’essere. Una pittura rivolta al fondo e all’anima di tutte quelle cose senza storia apparente, secondo una scelta filtrata attraverso gli spessori e gli eventi dell’ormai lunga esistenza dell’artista.
Una tendenza all’autointerrogazione che si era acuita nelle dolorose perplessità del primo dopoguerra; periodo di crisi e di transizione esistenziale ed artistica, nel ricordo dei compagni partigiani morti; il suo stesso scampare ferito, e il salvataggio ad opera di Ottone Rosai; e poi lo stacco da lui, o per lo meno dalla sua incombente personalità, trascorso nella solitudine d’una limonaia in via della Robbia, dove il giovane artista mediterà sugli eventi trascorsi e su quel futuro che si profilava incerto tra le macerie non solo materiali della guerra. E sarà in quel debilitato stato d’isolamento che incontrerà la sconosciuta sassifraga, una pianta che marcita in apparenza inaspettatamente rifiorirà, assurgendo nella sfera emotiva del pittore come invito di ritorno alla vita.
Un ritorno che avverrà, diramandosi per partecipazioni e dibattiti in seno al movimento Arte d’oggi, fondato a Firenze nel ’46 da artisti di culture e di formazioni diverse. Faraoni ne fu parte vitale assieme a Bozzolini, Berti, Nativi, Grazzini, Farulli, Lardera, De Angelis, Brunetti, Monnini e altri giovani. E nell’anno seguente fece parte della redazione della rivista “Posizioni”, sorta quale polo mediano sulla inalienabilità dei valori figurativi, non intesi però coi precedenti di Novecento né in quelli della “nuova realtà” di Annigoni e di Sciltian.
Sugli interrogativi suoi e non solo suoi per una nuova figurazione, Faraoni opterà per un lungo e solitario viaggio alla ricerca di quello “spirito” trascendente che abita la materia, procedendo con una strumentazione di bassi colori alla spoliazione di quel rutilante fascino dell’apparenza che invece continuava a nutrire molta pittura figurativa. I risultati che sopravvennero posero la sua pittura all’attenzione della più grande critica del novecento, da Longhi a Russoli, da Ragghianti a Testori, da De Micheli a Luzi e a Parronchi, tanto per citare solo alcune intelligenze che ne colsero il significato profondo. Cosicché molte perplessità destano certe ultime “riletture” di “carattere storico” che tendono ad ignorare non solo la sua effettiva e inalienabile caratura artistica, ma anche quel suo engagement nello snodo cruciale fiorentino dei primi anni del dopoguerra sulle scelte tra astratto e figurativo. Ma al di là di tali isolati ostracismi rimane fermo e incontrovertibile il positivo, corale attestato di quella critica e storiografia più attenta e autorevole, che ha guardato e continua a guardare all’opera di Enzo Faraoni come a quella di un vero maestro. (M.M.)