Inizia la sua formazione in Sicilia, per poi trasferirsi, nella prima metà degli anni Cinquanta, in Toscana, dove conclude gli studi nel 1956, fermandosi definitivamente a Firenze, dove da allora risiede e lavora.
La sua attività artistica inizia nel 1958, e si concentra su una espressione di natura informale, calda, espansiva ed avvolgente. Negli anni Sessanta è fra gli animatori di alcune gallerie fiorentine, come “Il Fiore” e soprattutto “L’Indiano”. L’incontro con Piero Santi e Paolo Marini, che sono in quegli anni i fautori dell’approdo a Firenze dell’esperienza romana di Angeli, Festa e Schifano, sollecita Giulietti ad indirizzare la sua ricerca verso le tematiche e i moduli della “pop art”. C’è così in questo periodo un’attenzione precisa alla pittura come immagine, una forte concentrazione sull’oggettività delle cose, che sfocia nei tardi anni Sessanta in una corposa serie di acrilici su tela emulsionata, intitolata ad Adamo.
Dal 1973 è titolare della cattedra di pittura all’Accademia di Belle Arti di Firenze, e subito dopo è stato, per alcuni anni, direttore artistico delle edizioni d’arte Il Bisonte, affiancando nella realizzazione delle loro opere grafiche artisti come Moore, Matta, Magnelli, Lipchitz.
La vocazione a sperimentare ha portato in seguito Giulietti a praticare, talvolta in maniera quasi disinvolta, forme diverse di espressione, sfiorando l’arte di concetto e coltivando talvolta l’istintività del gesto; il suo sforzo di concentrazione lo ha portato in ogni caso ad approdare, negli anni Novanta, a una pittura ariosa, avvolgente, sorretta da una salda padronanza tecnica oltre che da uno stile maturo e preciso.
Incisore e scultore, oltre che pittore, ha allestito nel corso degli anni numerose mostre, inserendo altresì le sue opere in importanti collezioni, pubbliche e private, in Italia e all’estero.
Come nel gioco complesso di un caleidoscopio, frammentato e minuzioso delle sue componenti, ma articolato ed estensivo nelle sue possibilità di sviluppo, la pittura di Giulietti degli anni Novanta parte da una presunta casualità, per poi trovare proprio nel suo divenire, nel suo proprio corpo si vorrebbe dire, i vincoli di regole ordinative, una struttura compositiva equilibrata, che la fa diventare logica e ragionata.
Secondo quanto recita il titolo dell’opera a cui ci stiamo riferendo, i dipinti di questo periodo sembrano in effetti fluttuare, come sospesi fra un’energia vitale, che fa lievitare l’impasto pittorico, fino a lasciarne emergere, come un distillato d’aria e di luce, le tessere di colore, e una volontà, che è quella dell’artista, ma che può anche essere tranquillamente quella organica della materia, che prova a dare stabilità, e ordine e struttura razionale, al tumultuoso espandersi di emozioni e sentimenti, da cui indubbiamente è animata la complessa tessitura di queste superfici.
Il dipinto sembra così condensare la capacità dell’artista, di bloccare, quasi di raggelare, la convulsa esplosione, come di reazione a catena, che l’impulso creativo ha inavvertitamente messo in moto. Dare ordine al caos, far si che gli elementi reagiscano fra loro in maniera propria, senza scoppiare, senza sfuggire al controllo dell’occhio e della mente: la differenza fra il gesto creativo di un impastatore di colori e l’imperizia del chimico dilettante è tutta qui. Forse sta in un niente, ma è un niente che si impara a fatica, perché prescrive una lunga sperimentazione e sicuramente qualche incidente di percorso, più di un esperimento fallito.
Oppure la differenza è più profonda e sostanziale, perché la creazione artistica ha a che fare soprattutto con la fantasia, l’imprevedibilità del pensiero che guida la mano e stimola il gesto; si può certamente pensare a un parallelo fra il fare artistico e il metodo della ricerca scientifica, ma alla fine la scienza che più confina con i territori dell’arte si rivelerà ancora una volta l’alchimia, la cui verità sperimentale rimane del tutto improbabile, la trasformazione assolutamente inoperosa, e ad agire è piuttosto un’aspirazione d’ordine filosofico e spirituale, che può tranquillamente accontentarsi di un’illusione, di apparenza piuttosto che di sostanza.
La ricerca di Gustavo Giulietti dura ormai da circa quattro decenni, e nel suo progredire è passata attraverso quattro fasi abbastanza identificabili e a loro modo compiute, anche se mai concluse, nel senso che non esiste soluzione di continuità nel passaggio da una all’altra, ma piuttosto un progressivo approfondimento del suo sforzo di porre ordine nella funzione creativa. Se negli anni Cinquanta e nei primi Sessanta la sua pittura è stata soprattutto materia e gesto, se nel decennio successivo si è concentrata sull’oggettività dell’immagine, negli anni Ottanta sembra aver forse troppo concesso all’azione del caso, per cui nei dipinti degli anni Novanta si nota l’evidente sforzo di tornare a confidare sulle capacità costruttive della pittura.
Siamo così ad uno snodo, piuttosto che al termine, del percorso che Giulietti ha iniziato negli anni Sessanta; siamo cioè di fronte a un processo aperto, che si concentra sulla struttura, di linee e di colore, del movimento, e per farlo si affida alla padronanza della struttura tecnica e alle suggestioni dello stile, strumenti indispensabili per orientarsi nella funzione creativa della casualità, una casualità che viene organizzata senza congelamenti, avendo cura che non si isterilisca, ma lasciando che torni a riflettersi sulla struttura tecnica e sullo stile, aprendo la sua ricerca artistica a soluzioni nuove, indirizzandola ad altri sviluppi.