A Firenze compie la sua formazione artistica e trascorre buona parte della vita. Nel 1935 si diploma all’Accademia di Belle Arti dopo avere seguito il Corso di Pittura con Felice Carena e il Corso di Incisione con Celestino Celestini. Due anni dopo è nominato assistente alla Cattedra di Tecniche dell’Incisione alla stessa Accademia e sempre in questo anno vince il Premio Sanremo per un affresco che poi non sarà mai eseguito. Nel 1942 è richiamato alle armi. Presta servizio sulla Costa Amalfitana per poi finire, dopo l’armistizio dell’8 settembre, in Sicilia con l’amico scrittore Giovanni Guaita. Qui, a contatto con una realtà profondamente arretrata e chiusa, partecipa attivamente al lavoro di ricostituzione di una struttura politico-sindacale. Con questa esperienza, che segnerà profondamente la sua coscienza rendendo sempre più acuto e intransigente il suo senso morale, rientra nell’estate del ’45 a Firenze. Nell’acceso dibattito del dopoguerra, si ritrova su posizioni di sinistra radicale, ma il suo carattere riservato e appartato lo tiene al di fuori della politica attiva, preferendo far sentire la sua voce attraverso un coerente e costante impegno con il fare artistico, prima come insegnante presso l’Accademia di Belle Arti, poi come pittore. Sarà al linguaggio dell’arte che egli destinerà il ruolo di commento e meditazione sulla dimensione umana e affettiva, sui nodi dell’esistenza individuale e collettiva.
Sono di questi anni la decorazione del soffitto del Rondò di Bacco di Palazzo Pitti (1946) e gli affreschi nella Chiesa di Santa Maria a Ponterosso di Figline Valdarno, Firenze (1947). Nel 1952 gli viene commissionata la grande vetrata per l’abside di San Lucchese presso Poggibonsi (Siena), alcuni anni dopo è impegnato sempre per alcune vetrate per la Parrocchiale di Visso (Macerata) e la Parrocchiale di Mercatale di Vernio (Prato).
Nel 1959 assume la direzione tecnica della Stamperia Il Bisonte, prodigandosi senza posa nella messa a punto di procedimenti tecnici e artistici. Nel 1966 viene invitato con nove opere di grafica alla Biennale di Venezia, forse il massimo riconoscimento alla sua carriera.
Dopo la sua morte il Premio Nazionale del Fiorino gli dedica una retrospettiva (1969) e già nel 1968 la VII Biennale d’Incisione Italiana Contempo-ranea di Venezia ne aveva degnamente rievocato la figura.
Le opere di Rodolfo Margheri si trovano presso collezioni e gallerie private in particolare a Firenze e Milano, in collezioni e gallerie pubbliche: Accademia Belle Arti di Firenze, Galleria degli Uffizi e Galleria d’arte moderna di Firenze.
Rodolfo Margheri dedica molta parte della sua produzione alla pratica del ritratto. Autoritratti e ritratti di amici, persone a lui strettamente vicine (i loro nomi sono puntualmente riportati nei titoli), sono presenti in tutto l’arco dell’intera vicenda artistica. Ritratto, quale genere consono all’indagine di problemi intimi di un’espressione umana; Renzo Federici individua in questa galleria di personaggi dipinti degli “alter ego inventati, interlocutori necessari di un dialogo ancora una volta con se stesso” (R.�^Federici (a cura di), La realtà, il silenzio, la grafica di Rodolfo Margheri, Firenze, Il Bisonte-Vallecchi, 1982, p. 17).
In questo ritratto il personaggio è colto in un momento privato, dismesso, davanti ad un tavolo coperto da una tovaglia bianca con sopra un solo bicchiere. Ma l’immagine non sembra interessata alla rappresentazione del mondo che sta fuori, se mai l’artista è più impegnato a cogliere l’evidenza del carattere e la complessità psicologica.
L’esecuzione si risolve con una figura imponente, ferma, essenziale, ma dai tratti fortemente connotati: gli occhi scuri allungati, quasi delle fessure che fanno appena uscire una interiorità rimasta al di là della soglia di comunicazione, una fisionomia segnata dagli eventi del tempo e della vita. L’opera è ottenuta da una tavolozza basata su toni spenti tenuti su gamme basse che fanno risaltare la debole accensione cromatica della giacca rossa. Nella salda costruzione spaziale del pittore Ferrero si coglie la colta rievocazione dei primitivi, indicante una formazione mirata al recupero della grande scuola artistica nazionale (Margheri aveva studiato con Felice Carena nell’osservanza della tradizione disegnativa toscana), ma anche l’esperimento di uno stile, in cui si innestano suggestioni prese a prestito dalla contemporaneità: una pittura antieroica incline al tonalismo di Scuola Romana, un’apertura alla cultura europea attraverso una rimeditazione del Picasso neoclassico, ma anche forti connotati caratteriali della figura, che richiamano con le loro forzature certe deformazioni espressionistiche. S.T.
Grazie alla gentile donazione della figlia di Rodolfo Margheri, Chiara Margheri Galanti, la Collezione Civica Il Renatico aggiunge al dipinto del maestro anche una delle sue più belle incisioni, Ragazza in maglietta bianca allo specchio. Margheri oltre ai suoi numerosi ritratti che traducono le effige di molti suoi colleghi e collaboratori, è noto infatti per le sue incisioni nelle quali raggiunge livelli tecnici e artistici ineguagliabili. L’incisione è stata per il maestro toscano una delle forme espressive più significative infatti, dopo avere insegnato grafica presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze, diventa nel 1959 direttore artistico della stamperia d’arte Il Bisonte, mettendo a disposizione di grandi maestri del Novecento, Giorgio de Chirico, Henry Moore, Renato Guttuso ed altri, la sua grandissima esperienza. Margheri riporta nelle sue acqueforti i temi più cari, già trattati in pittura: il ritratto e il paesaggio, come mostrano le cinque acqueforti presenti alla Quadriennale di Roma nel 1960, Ritratto di signora, Appennino, Poggio alla Quaglia, Afa d’estate e Presentimento d’inverno. Sulle lastre, che il maestro lavora sempre con minuziosa precisione, servendosi di tutti gli strumenti che gli consentivano di eseguire linee fitte, continue, sovrapposte, ma anche segni circolari, profondamente scavati con trapani dalle punte piccole, si ritrovano i volti dei suoi familiari, usati molto spesso come modelli, i suoi autoritratti, dove spiccano grandi occhi scuri in un volto spesso cupo e nascosto da forti contrasti chiaroscurali e i numerosi paesaggi collinari dove le differenze tonali, ottenute da ripetute morsure e coperture della lastra, incuriosiscono per la varietà dei segni e le infinite possibilità di lettura. Le linee incrociate e sovrapposte che costruiscono il fitto reticolato che riempie i volti, gli abiti, ma anche gli sfondi delle sue composizioni, contrastano col bianco delle camicette, caste e inamidate, delle giovani ragazze che il maestro immortala sui suoi fogli incisi, conferendo elegante staticità alle figure, sempre assorte in un’evidente introspettiva meditazione. P.C.