Figlio di contadini, come amava ripetere, inizia a disegnare e a modellare quasi per gioco, ed è sostanzialmente un autodidatta quando, intorno alla metà degli anni Venti, viene scoperto da Ardengo Soffici, che lo introduce nell’ambiente artistico fiorentino, consentendogli tra l’altro di partecipare alla prima mostra del Selvaggio nel 1927 e poi di essere chiamato a collaborare, con i suoi disegni, al giornale di Mino Maccari.
Altrettanto decisivo sarà nella formazione di Quinto Martini il suo soggiorno torinese, determinato dalla servizio militare, che gli consente di entrare in rapporto con il Gruppo dei Sei, e per quel tramite non solo con la pittura francese, ma anche con le prime manifestazioni di un latente antifascismo.
Sono influssi evidenti nelle opere degli anni Trenta: i dipinti dedicati ai Mendicanti, la cui povertà viene espressa dalla scabrosa sintesi dei mezzi pittorici, le prime sculture, il cui riferimento più evidente appare la ruvidità anticlassica della plastica etrusca.
Ad ogni modo la partecipazione alla Biennale di Venezia del 1934, dove presenta la Ragazza seanese, una salda figura di terracotta ricca di suggestioni arcaiche, rappresenta la prima di una lunga serie di affermazioni cui Martini approda nel corso degli anni Trenta, con le ripetute partecipazioni alle Quadriennali di Roma e alle Biennali di Venezia, l’allestimento delle prime mostre personali a Firenze, Roma, Milano, la collaborazione a riviste importanti come il “Frontespizio” di Piero Bargellini.
Il successo dello scultore continua anche nel dopoguerra, con una lunga serie di partecipazioni a importanti rassegne collettive, nelle principali città italiane ed europee, che culmineranno nella presenza alla mostra Scultori italiani contemporanei, curata da Carlo Ludovico Ragghianti e Fortunato Bellonzi, destinata a fare letteralmente il giro del mondo, toccando una decina di paesi, fra Europa, Asia e Americhe.
Disegnatore, pittore e incisore, oltre che scultore, Quinto Martini si è cimentato anche con la scrittura, riuscendo a pubblicare due romanzi, ma in particolare rivelandosi un attento commentatore di storia dell’arte, soprattutto per quel che riguarda la scultura dei grandi maestri, da Donatello a Michelangelo a Rodin.
Nel corso degli anni Ottanta ha contribuito a realizzare, nella sua città natale, il Parco-Museo di Seano, uno spazio all’aperto che raccoglie trentacinque grandi sculture in bronzo, riassumendo l’intero percorso della sua produzione artistica.
Quinto Martini è stato uno straordinario impaginatore di ritratti, che si basano sulla una inesauribile capacità di penetrazione dei volti umani, dei quali riesce a cogliere l’essenziale per via di una costante intensificazione chiaroscurale, da cui far emergere con evidenza gli elementi morfologici più nobili e caratterizzanti, come gli occhi e la bocca.
Il Ritratto di Elisabetta Bacchelli, che dimostra nell’estraniazione pudica del volto, oltre che nella soluzione del copricapo, una qualche assonanza con certe figure muliebri di Piero della Francesca, con la Madonna della Misericordia in particolare, è databile intorno alla metà degli anni Trenta, e si colloca pertanto in quel recupero della plastica antica, in particolare dei canoni etruschi, che segna l’indirizzo dominante della ricerca di Martini nel decennio che precede l’ultima guerra.
Guardando ad una espressività antiaccademica e antidecorativa, lo scultore predilige i materiali poveri, come la terracotta e la pietra di fiume, e tuttavia come si vede tende poi a ricercare le stesse scabrosità e ruvidezze anche nella fusione in bronzo.
Il sapore arcaico dell’opera viene altresì alimentato dalle mutilazioni e dalle sbrecciature, cui è stato evidentemente sottoposto il modello in gesso, che devono dare alla scultura connotazioni tipiche del reperto archeologico.
L’attenzione ai caratteri fisionomici e descrittivi, di chiara ascendenza etrusca, viene tuttavia stemperata da esigenze espressive più dilatate, di maggiore concentrazione interiore ma di più larga impostazione formale, per cui la brutale scabrosità della materia grezza si allenta nella impostazione semplificata, salda e pacata, della figura. La scultura di Martini si pone così come risultato di un percorso di ricerca che guarda a un più generale recupero della austera figurazione della scultura toscana antica, da quella etrusca a quella dei maestri del primo Rinascimento.
La sua attenzione ai valori della plastica toscana pertanto, pur non sfuggendo, almeno in origine, alle suggestioni e al fascino della scoperta dei “padri etruschi”, sembra interessata piuttosto a ricostruire un percorso di ricomposizione formale, recuperando un’idea di stabilità della figura, in termini di compostezza e di sobrietà espressiva, in modo che non venga comunque mortificata l’esigenza di dare pieno risalto ai valori spirituali dell’immagine.
Quinto Martini, infatti, come ha giustamente sottolineato Carlo Ludovico Ragghianti, “tiene alla sua ingenuità e immediatezza”, che persegue con tenacia di intenzioni e lucidità di indirizzo, “rifuggendo da ogni intellettualismo e preferendo un rischio di elementarità alle tentazioni della sottigliezza”. M.B.
Il tema delle figure abbandonate, in posizione di riposo, anche quando sia la pausa di un attimo, come per questa Donna appoggiata a un tavolo, è uno di quelli ricorrenti nella pittura e nel disegno di Quinto Martini. Certamente perché fin dall’infanzia i personaggi campagnoli che aveva intorno gli si potevano offrire come soggetto, se non proprio come modelli, solo durante le pause del lavoro o durante i momenti di riposo, ma anche e soprattutto perché nel suo modo di intendere la figura umana, solo un corpo abbandonato si presenta totalmente “nudo”, vale a dire senza la protezione della posa, lo schermo dei gesti e delle intenzioni.
Lui stesso ha raccontato la provenienza di queste suggestioni, mettendole in conto alle sue origini contadine: “ho lavorato da ragazzetto la terra insieme coi miei e durante le ore di riposo, nei pomeriggi d’estate, all’ombra delle viti e degli alberi del campo, presto incominciai a impastar mota, cercando di ritrarre i corpi degli uomini che dormivano sdraiati sull’erba”, così come a questo tipo di sollecitazioni andrà messo in conto anche il precoce impulso a “sporcare con carbone e colori” i muri di casa.
La sua produzione grafica degli anni Trenta testimonia così piuttosto il tentativo di confrontarsi, non avendolo potuto fare a scuola, con le novità dell’arte europea, per cui più di una tangenza può essere riscontrata, per temi e moduli espressivi, con l’espressionismo di Viani, riguardo ad esempio alla serie dei Mendicanti, con il Picasso del periodo Blu, riguardo a certe figure materne, con Cezanne soprattutto, si è osservato da più parti, riguardo a certe scene di vita o all’articolazione del paesaggio.
Quello di Martini rimane in ogni caso un Cezanne filtrato da Soffici, come dire tradotto in toscano, che vuol dire non assecondato nella tendenza a scomporre l’immagine, ma piuttosto seguito nel depurarla di ogni superfluo, alla ricerca di una sintesi formale che risulta estremamente funzionale a rendere il clima scarno di ambienti e personaggi campagnoli.
Perché Martini ha troppo a cuore la fiera identità della sua gente per abbandonarsi a toni patetici o eccedere nel compianto, quello che lo interessa e riuscire a dare forma agli umori della società contadina, osservata nella frugalità dei gesti piuttosto che nella scarna miseria che la circonda.
Da qui il recupero, proprio a cavallo degli anni di guerra, di una certa idealità mediterranea, ancora filtrata si potrebbe dire da un classicismo di impronta francese, da Maillol se si vuole, meno dichiaratamente accademico e tuttavia più solido e saldo.
Da qui anche la sua ricerca di identità, scontrosa e polemica fino al rischio dell’isolamento, lucida e dichiarata: “Non sto dietro a polemiche, non sfoglio riviste per aggiornarmi, ho in avversione qualsiasi forma d’arte che sappia d’intellettualismo e di moda. Amo invece, quanto a me, osservare la vita e le persone che mi si muovono intorno di continuo; e vorrei raffigurare ed esprimere con semplicità di linee e larghezza di piani gli aspetti più caratteristici e poetici di questa natura”. M.B.