Come molti altri artisti pistoiesi l’iniziazione all’arte avviene alla Scuola d’Arte di Fabio Casanova, poi l’esperienza da autodidatta, ponendo l’attenzione su tutto quello che artisticamente ruotava intorno, e l’amicizia e la stima di Alfiero Cappellini. Alla Scuola d’Arte frequenta i Corsi Serali di Disegno Tecnico, esigenza dettata non da un interesse specifico per questa materia, ma in funzione di un miglioramento del suo lavoro di apprendista meccanico. In queste aule conosce Aldo Frosini, Remo Gordigiani, Marcello Lucarelli, Jorio Vivarelli, Alfio Del Serra, ma soprattutto conosce il disegno e la pittura.
Le prime esperienze artistiche risalgono al periodo di Sant’Alessio, quando in fuga dalla guerra con la famiglia è costretto a lasciare Pistoia e a rifugiarsi nelle campagne. Qui inizia a dipingere dal vero e a maturare scelte in direzione dell’operare artistico.
Le prime opere (Natura morta con limone, 1945; Autoritratto-amico malato, 1946; Ritratto di mio padre, 1948) rivelano un modo denso e problematico di contemplare la realtà. Il modello è da ricercare in una cultura espressionista che traduce la violenza dei sentimenti in contrasti acuti e spigolosi, nel disarmonico accostamento di colori stridenti fino ad arrivare, nelle opere del 1948, ad un disfacimento della forma naturalistica per ridurlo a pura nota cromatica ed entità geometrico-astratta (Composizione di figure I, Capannoni alla S. Giorgio).
Nel 1947 entra a lavorare in fabbrica. Il lavoro lo porta a confrontarsi con una realtà dura ma ben determinata. Inizia a leggere i classici e la storia italiana.
Anche la sua pittura sembra risentire della pesante esperienza lavorativa, ma si arricchisce anche di fermenti ideali ed artistici. Alla Biennale veneziana del 1956 conosce Constant Permeke e Emil Nolde. L’incontro con i due artisti del nord, alimenta la sua tendenza a porre nella pittura il rapporto con il sociale, attraverso la forza espressiva del colore, del taglio compositivo, dell’impeto creativo (Figura al lavoro II, 1954; Operaio al lavoro, 1959).
Negli anni Sessanta l’attenzione si posa sui paesaggi e nature morte. La natura in queste opere non è mai contemplata, semmai caricata di problemi esistenziali, per il bisogno di fissare gli impulsi interiori in immagini immediatamente percettive (Paesaggio notturno, 1964; Vaso con fiori, 1967).
Poi venti anni di silenzio, o almeno di non documentata attività pubblica.
Le tele dell’ultimo decennio (Paesaggio a Sant’Angelo in Colle I, II, III, 1990) manifestano un’esigenza di sintesi, sezionando l’immagine in tasselli con cromie luminose, una realtà scomposta e ricomposta da campiture di intenso spessore.
Le opere di Francesco Melani si trovano in collezioni pubbliche e private.
L’opera si colloca nel periodo in cui l’artista dipinge su carta grandi immagini di boschi; una natura colta nei suoi intrecci, nei grovigli, con una forte densità pittorica. Melani in un intervista ricorda quel momento: “… Si trattava di lavorare su un tema che mi dava piena libertà d’azione e di risolvere il quadro su grandi superfici lisce, la carta appunto, dove il pennello potesse scorrere. Avevo uno studio grande in Porta San Marco. Potevo appendere i fogli e lavorare da solo, come ho detto in grande libertà. Ne sono venute fuori cose più liriche, più meditate” (M. Tuci, Conversazione con Francesco Melani, in AA.VV., Francesco Melani -Mostra Antologica. Opere dal 1945 al 1990 (catalogo della mostra), Pistoia, Edizioni Comune di Pistoia, 1992, p. 45).
In Sottobosco i colori sono brillanti e cupi allo stesso tempo, ogni timbro è forzato, come se dovesse prevalere sugli altri. Le pennellate seguono l’andamento della vegetazione, come per riproporre la sensazione visiva più che la costruzione naturalistica. Come in tutta la sua opera, anche qui non siamo davanti, nonostante il soggetto, al compiacimento di una veduta accattivante, ma quest’ultima si offre come “il volto duro delle cose … a denuncia – forse anche a sua insaputa – di quella crisi intuita e profonda del pensiero moderno che, spogliatosi delle sue utopie, pare ormai arrancare nel mare della delusione” (D. Carlesi, Un documento politico e civile di grande rilevanza storica, in AA.VV., Francesco Melani - Mostra Antologica. Opere dal 1945 al 1990 (catalogo della mostra), Pistoia, Edizioni Comune di Pistoia, 1992, p. 27).S.T.
Per circa un ventennio l’attività pittorica di Francesco Melani sembra passare al silenzio, una dichiarazione dell’artista può essere significativa per capire questo periodo di allontanamento: “Il boom economico sfumava certi valori; il consumismo ne proponeva altri. Non che allora avessimo la percezione esatta di ciò, ma oggi, a posteriori, possiamo constatare che si è trattato anche di questo. Così si spiega la scelta di dipingere, per un lungo periodo, paesaggi, fiori ed altro dal vero, di considerare il quadro, o anche il piacere di dipingere, come fine a se stessi, senza farli più rientrare in un progetto ideale più ampio e più importante” (M. Tuci, Conversazione con Francesco Melani, in AA.VV., Francesco Melani - Mostra Antologica. Opere dal 1945 al 1990 (catalogo della mostra), Pistoia, Edizioni Comune di Pistoia, 1992, p. 46). Forse il silenzio artistico del pittore nel ventennio Settanta-Novanta, riflette allora una crisi più ampia, una crisi ideale, che vede la dissoluzione di quei valori che avevano retto dal dopoguerra in poi l’idea stessa di artista.
Questa natura morta, nasce quindi in questo “silenzioso” ripensamento, quasi un felice approdo nella poetica delicata di una quiete interiore. Il vaso di fiori è posto in posizione laterale, quasi da rendere la composizione sbilanciata, per far posto sul piano orizzontale ad un foglio dove è schizzato un ritratto di uomo. L’enorme foglia della calla, taglia in diagonale lo spazio; presenza incombente nel dipinto, da una parte con un ripiegamento della parte finale, sembra incurvarsi in un abbraccio a proteggere la delicatezza dei fiori, dall’altra, isola il resto dell’immagine, che vede così completamente staccato dal dialogo compositivo il volto disegnato.S.T.
Ancora dei fiori, rappresentati con l’incisione ad acquaforte. È un ramo spezzato con tre fiori e le foglie già in parte avvizzite. L’immagine reca le tracce dello scavo parsimonioso del segno, un’immagine che s’imprime con una certa rudezza, come per esempio le parti finali delle foglie, così appuntite e piene di angolosità, o gli stessi fiori, resi senza sfumature, con piccoli tratti decisi. La mancanza di toni intermedi, contrastanti i forti grigi, con il bianco del tavolo, aumenta la consistenza realistica del soggetto, anche se mediata da una trascrizione dell’animo. S.T.