Gualtiero Nativi si era accostato alla pittura frequentando lo studio fiorentino del pittore tedesco Staude, dal quale presto si staccò non condividendone l’impostazione naturalista.
Allievo di Giorgio Pasquali alla facoltà di lettere, tramite un compagno di corso entrerà nel 1945 in contatto con il gruppo della rivista “Torrente”, dove conoscerà Berti Brunetti e Farulli, con i quali, e con un più ampio giro di artisti, fonderà l’anno seguente il movimento Arte d’oggi nel quale sarà tra i più convinti sostenitori di un’arte astratta fondata su radici classiche. Una messa a punto che Nativi preferirà ben collaudare per tutto il 1947, presentandosi con gli altri astrattisti solo nella 2a mostra del gruppo tenuta alla Galleria Firenze l’anno dopo, esponendo ancora con Berti, Bozzolini, Brunetti Monnini e Parnisari alla milanese Galleria Bergamini e poi nel ’49 alla 3a mostra del gruppo alla Galleria Vigna Nuova. Dipinti come Simbolo, Equilibrio, Costruzione, riportano l’estrema attenzione allo studio tra le connessione dei vari elementi in una pulizia tecnica di estremo rigore. Con Berti, Brunetti, Monnini e Nuti firmerà nel giugno del ’50 il Manifesto Una poetica dell’astrattismo, detto anche dell’“astrattismo classico”, edito durante la mostra collettiva alla Galleria Vigna Nuova; documento che suggellerà lo scioglimento del gruppo.
Invitato nel ’52 come grafico alla XXVI Biennale veneziana, si avvicinerà al Groupe Espace di Parigi, interessandosi a connessioni tra struttura architettonica e decorazione astratta, già attuata a Firenze su commissione dell’architetto Giovanni Michelucci suo concittadino, assieme agli esponenti del gruppo astratto e poi isolatamente con le composizioni eseguite per il fiorentino Caffé Donnini. Nativi sarà invitato a esporre alle mostre sull’arte astratta alla Galleria d’Arte Moderna di Roma nel 1951, ’53 e ’55, alle Quadriennali romane del 1959, del ’65, del ’73 e alla Biennale Intenazionale di S. Paolo del Brasile. La sua attività era parimenti documentata in numerose collettive in Italia e all’estero: nel ’55 con Brunori, Dorazio, Perilli, Romiti e Sanfilippo alla Galleria Schneider di Roma, nel ’57 al Brooklyn Museum di New York e in rassegne nei musei d’arte moderna di Vienna, Belgrado e Zagabria. Nel 1977 la città di Pistoia gli assegnò il Premio Cino e nell’82 gli dedicò una grande mostra antologica, seguita nel 1985 da quella alla Galleria d’Arte Moderna di Gallarate e ancora nel 1988 al Museo S. Apollonia a Venezia.
Se nel gruppo dell’astrattismo classico Vinicio Berti rappresentò l’espansione emotiva di un astrattismo quale virtuale segno per arrivare all’uomo, facendosi registro sismico delle sue conquiste e delle sue speranze, Gualtiero Nativi rappresentò l’elemento opposto e tuttavia complementare.
Una sorta di “dottor Sottile”, anch’egli sostenitore di un’arte collettivista di assoluta fede marxista ma tuttavia d’altro ordine, più intento all’analitica indagine scaturita da un controllato riflesso interiore. Da tali capacità discenderanno le sue inesauribili sperimentazioni, quel suo stesso procedere attraverso un’impietosa autocritica che non gli aveva permesso, nel ’47, di esporre i suoi primi risultati astratti tra quegli degli altri colleghi alla 1a mostra di Arte d’oggi.
Rovello teoretico che attraverso crisi di crescenza aveva fatto di Nativi una figura d’intellettuale in grado di catalizzare le esterne attenzioni. Un rango specifico che mosse l’artista in direzione quasi oppositiva all’indirizzo bertiano, benché entrambi convinti sulla teoria di un astrattismo “classico” che, come tale, muoveva da forme razionaliste di specifica natura umanistica, per ritornare, nell’accezione d’un linguaggio moderno, all’uomo. Ma Nativi si poneva ben altra meta, appunto “di natura più intellettuale e più ambiziosa” come giustamente ha rilevato anche Piero Pacini, cercando “una realtà che è al di sopra delle contingenze e dello stesso uomo. Nativi persegue utopisticamente ma con tenacia e lucidità mentale un antico sogno umanistico prodotto da civiltà raffinate in una situazione di elevato equilibrio spirituale e proteso ad affermare – a rendere visibile – quanto di più elevato si affaccia all’immaginazione dell’uomo”.
Ed è interessante riflettere su quella sorta di automatico filtro, intercorrente tra il “lucido e solitario furore”, come ebbe a scrivere di lui Corrado Cagli, tra quella sua concezione di artista volto a una pittura matericamente improntata all’estremo rigore, e le sue perenni tensioni di fondo sommosse da una turbolenta volontà di essere uomo e artista militante, coinvolto nelle diatribe artistiche e politiche della propria epoca, fino a mettere in atto radicali forme di lotta che lo porteranno tra l’altro ad oscurare in segno di protesta, assieme a Berti, i propri dipinti esposti al Premio del Fiorino.
E con quel medesimo “lucido e solitario furore” Nativi si espresse sulla tela con un dinamismo violento ma sempre in ultimo controllato da quella capacità mediatica di applicazione che mai lo farà derogare nella resa pittorica, dal supremo e netto ordine di tenuta formale.
L’opera che l’artista ha donato al comune di Monsummano Terme poco tempo prima della morte risale al periodo della sua piena maturità, quando le vicende e le polemiche del ventennio precedente volgevano ormai alla storia. Giocata su azzurri e neri sopra un bianco fondale, l’opera fa parte di altri analoghi dipinti tipici degli ultimi anni Settanta caratterizzati da una ricompattazione degli elementi, “che da allora”, come ha scritto Rolando Bellini, “viene con continuità a determinarsi e arricchirsi in varianti e covarianti […] in forme e sottoforme e composizioni e varianti d’esse […] in una ridda di segni e segnali, sintagmi, morfemi, in un complesso divenire linguistico che avrà un suo orizzonte primo all’avvio degli anni Ottanta”.M.M.