A undici anni iniziò a dipingere sotto la guida di Carlo Bazzi, lavorando poi come minatore e come scaricatore di sale. Nel giugno del 1944 venne arrestato dalle SS tedesche, e dei giorni di prigionia il giovane riporterà traumi depressivi che segneranno per sempre la sua vita. Finita la guerra si era iscritto al liceo artistico di Brera, che lascerà poco dopo a causa di un conservatorismo che non permetteva libertà espressiva. Per tale fine nell’autunno del 1947 Parnisari si stabilirà a Firenze, attratto dal richiamo di una vivezza d’idee che un eterogeneo gruppo d’artisti portava avanti dall’anno precedente. Entrato in contatto con il gruppo “Arte d’oggi”, l’interesse di Parnisari si focalizzerà sui sostenitori della linea astratta, principalmente Vinicio Berti e Gualtiero Nativi, iniziando parallelamente l’attività di ceramista d’arte a Capraia di Montelupo Fiorentino, che si protrarrà per i quattro anni da lui trascorsi in Toscana.
Il suo percorso figurativo, già approdato ai moduli picassiani del post-cubismo, a Firenze proseguirà nello stesso indirizzo con Natura morta allo specchio, ma in un breve volgere di mesi, maturatosi nelle convinzioni dell’astrattismo, Parnisari approderà ai risultati di Compo-sizione N. 1 e Composizione N. 2. Il giovanissimo artista costituì per gli astrattisti fiorentini un elemento di raccordo con l’avanguardia milanese, distinguendosi per la sua intelligenza critica e per le sue libere e coraggiose aperture, che in quanto tali gli causeranno un progressivo isolamento. Nel ’48, espose alla II mostra di Arte d’Oggi e alla Galleria Bergamini di Milano con Berti, Bozzolini, Brunetti, Monnini, Nativi. Subito dopo l’artista si staccherà dal gruppo per avvicinarsi, ancora a Firenze, all’ambiente internazionale di Fiamma Vigo, collaborando alle riviste “Base” di Piero Gambassi e “Numero” della stessa Vigo. Nel ’50 l’artista entrerà in rapporti con Carlo Cardazzo, titolare della Galleria milanese Il Naviglio, esponendo con i pittori del Movimento Arte Concreta (MAC) e alla XXV Biennale di Venezia. L’anno seguente, dopo aver nuovamente esposto al Naviglio, dovrà rientrare a casa per problemi finanziari. Seguirà una grave forma depressiva, e più volte sarà ricoverato. Ristabilito, lavorerà per quasi sette anni come impiegato di banca, abbandonando quasi del tutto la pittura. Nel 1960 sarà in Svizzera, rientrando poi a Domodossola in preda a nuovi disturbi mentali; alternando miglioramenti a ricadute, Parnisari si dedicherà soprattutto alla ceramica, alla scrittura e al disegno fino alla morte.
Il dipinto, registrato Senza Titolo secondo una terminologia tesa all’anonimato (derivata da aspirazioni di un linguaggio perfettamente astratto, creduto più “universale’ quanto meno singolarmente riconoscibile) verte sulla disposizione di forze modulari nello spazio, il cui tema, dibattutissimo, figurava tra le basi lessicali dell’astrattismo.
Costruito da “elementi dinamici’ ocra, neri, rossi e marroni che formano una struttura irregolare, il dipinto mostra una concezione spaziale già distante e in un certo senso opposta da quanto espresso dall’artista nelle Composizione 1 e 2 dell’anno precedente. Opere nelle quali, come scrisse nei suoi appunti, la ripartizione dello spazio era concepita “per valori equidistanti” di elementi statici “che i segni lirici, espressi in fili, ricongiungono sulla base del tema dinamico, per una volontà di espressione armonica”. Segni lirici di filature che si riallacciavano all’idea dei raccordi grafici tra elementi circolari espressi già nella seconda metà degli anni venti nelle astrazioni di Moholy-Nagy.
Nell’opera in esame, eseguita verosimilmente nel 1948, quel “possesso dello spazio” che “implica la conoscenza dei valori che lo compongono”, viene espresso non più per ripartizione armonica tra statiche e isolate forme, ma per un interagire di elementi che non stabilendo soggettive priorità, rendono di per sé dinamico lo spazio. Una tensione ritmica che tende a trasferire, mediante allusive convergenze, il baricentro del dipinto verso la sua periferia.
Tale composizione precede forse, seppur di pochi mesi, un’altra più elaborata opera: Il sole, nella quale, per analoga impostazione cromatica e compositiva, l’armonia degli elementi triangolari converge dalla periferia verso i tre quarti d’un cerchio giallo (o che anche da questo potrebbero irradiarsi verso la periferia) situato su un piano decentrato del dipinto.
Un’opera che recando un titolo e un’allusione oggettiva, potrebbe rientrare tra le ragioni di quella contestazione mossa a Parnisari dal gruppo astrattista fiorentino, in primo luogo da Nativi, circa la libera espressione di ricerca che portava l’ossolano (già inquisito sul piano ideologico – benché di sinistra – perché non iscritto al PCI) a derogare da quell’astrazione che di lì a poco si sarebbe chiamata “classica”’, nata dalla specifica “necessità di ricerca collettiva” come annunciava anche il depliant della mostra alla Galleria Bergamini di Milano, apertasi significativamente il primo maggio 1948: “necessità di ricerca collettiva” tesa “attraverso una rigorosa disciplina di lavoro senza facili abbandoni e incontrollati impulsi, a concretare una diffusa aspirazione ad un linguaggio non più limitato ad esigenze individuali, ma destinato in un domani più o meno lontano, a svilupparsi in una sua ben definita funzionalità su più larghe basi compositive”.
Dopo tale mostra, in cui esposero con tre dipinti rigorosamente anonimi Berti, Bozzolini, Brunetti, Monnini, Nativi e Parnisari, avvenne lo sgancio di quest’ultimo dal gruppo per le riferite ragioni d’ordine ideologico e artistico.
I due disegni fanno parte di una serie di studi intrapresi dall’artista tra il 1947 e l’anno successivo sui rapporti tra elementi statici e dinamici, espressi poco dopo nei primi dipinti astratti.
In questi due studi, ricollegabili ad altri conservati anche nella collezione del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, si evidenzia nella partitura spaziale scandita da rette e da curvilinee l’interazione in chiave astratta di forme statiche e dinamiche. Uno studio derivato da riflessioni partite dalla diretta osservazione degli antichi maestri nei musei fiorentini, come si legge in alcuni passi autobiografici narrati in terza persona dal giovane artista in “Testimonianza di un pittore”: “Il Rinascimento ha dato le misure, i canoni della composizione. Gli artisti hanno composto in base a una concezione statica e dinamica. La composizione statica perviene fino a Giotto; dopo Giotto prende sviluppo la composizione statico-dinamica. L’oggetto, il corpo, è fermo, e dinamico è il movimento, nei movimenti in cui la figura, la scena si rappresentano. La statica è alla base, e la dinamica si riassume nell’ambito di essa. Colla decadenza avviene la rottura degli schemi statici: dal centro si aprono verso l’esterno, in una dispersione di valori e con l’espressione nella dinamica. La dinamica compositiva costruisce lo spazio, e si disperde fuori di esso, fino ad annullarsi. Più tardi, nel tentativo di un recupero dei valori, si costruisce lo spazio attraverso una statica monumentale, apparente. Il quadro di genere oscura la scienza del comporre, fino a dimenticarla. L’ottocento francese con Manet, sulla base di un intendimento orientativo nel gusto, con Gauguin poi e con Cézanne, fino ai cubisti, riscopre i valori; i futuristi italiani invece, sulla base di un intendimento dinamico, attraverso il dinamismo plastico, recuperano il mezzo compositivo nella dinamica” (da: Un soggiorno di esperienze pp. 89-90, in “L’arte il tutto”, cit.).
Da tali riflessioni scaturisce quell’incessante ansia di ricerca che collocherà Parnisari fuori da ogni condizionamento ideologico ed estetico, ma che contribuirà, in quella società uscita dal fascismo ma similmente inesorabile nella sua settarietà, a scardinarne la fragile integrità psichica.
Questo disegno astratto, come i due figurativi che seguono, complessivamente databili tra la fine degli anni sessanta e la prima metà dei settanta, fanno parte di altri numerosi appunti grafici espressi da Parnisari nell’ultimo periodo della sua vita.
Perduta ogni speranza d’autonomia, la sua vocazione artistica era stata mortificata da un ventennio di rovesci e di umiliazioni d’ogni genere. La mancata indipendenza economica lo aveva fatto tornare appena venticinquenne a Domodossola, allontanandolo dai centri dell’avanguardia artistica fiorentina e milanese.
Da quell’emarginazione derivò la profonda frustrazione che, rodendo la sua fragile costituzione psichica, sfocerà rapidamente in una più grave forma depressiva che lo farà ricoverare al manicomio di Novara e poi in una clinica psichiatrica di Monza.
Cure riabilitative saranno orientate al recupero dell’uomo sacrificando l’artista, poiché l’arte veniva sospettata quale fomentatrice di stati paranoici, di esaltazioni e ricadimenti psichici. Così, cercando di isolare l’uomo dall’artista, si tenterà un riadattamento possibile alla realtà contingente, estraendo da quella complessa spiritualità la supina dimensione d’un Parnisari Arrigo riciclato nelle mansioni d’ordine d’impiegato bancario, al quale il direttore di filiale aveva per prima cosa comandato un corso di bella calligrafia presso un maestro elementare.
Parnisari si farà condurre in quella graduale demolizione spirituale per quasi sette anni, aggrappato con la disperazione della sopravvivenza a quel mondo che non gli apparteneva e a cui non poteva certo appartenere. Poi l’abbandono; un lungo soggiorno in Svizzera, nuove ricadute e nuovi ricoveri.
La sua creatività sopravviveva ancora saltuariamente nella ceramica, con la quale partecipava a premi e concorsi nazionali. L’esercizio grafico, assieme alla scrittura di memoria e di racconti rimase invece, fino alla morte, espressione inedita, riserva dolorosa e personale di sentimenti.
Le due teste fanno parte dell’ultimo periodo grafico di Arrigo Parnisari; periodo triste e oscuro, nel quale dell’anima dell’artista sopravviveva solo una fiaccata essenza. Spasimi d’una volontà di sopravvivenza creativa, disperata e istintiva, dettata da un insopprimibile moto dello spirito per giustificare la propria flebile esistenza. Così si legge in un brano autobiografico: “Enrico da tempo disegnava teste su temi immaginari e paesaggi immaginosi. Usava del segno come espressione grafica a linea pura, e sul tema di teste ne aveva disegnate duecento, duemila. Disegnava nei caffè, in treno, durante i viaggi di trasferimento ai quali lo obbligava il lavoro. Disegnava pervaso da uno stato ossessivo, nella volontà di fissare l’idea. Cercava soprattutto un ritmo, attraverso il quale gli oggetti si componevano, deformandosi. Lo ossessionava la presenza di teste, che disegnava trasfigurate, ma uguali, in una volontà sub-conscia di fissare l’idea in un tipo di testa. Erano teste solitamente riecheggianti i temi di antichi dignitari. Alcune erano oblunghe: avevano le labbra rinserrate e il profilo nobile. Altre invece erano deformate in sembianze caricaturali, a ricordo della caricature di Leonardo” (da Pazzo per forza pp. 140-141, in Testimonianza di un pittore, cfr. “L’arte, il tutto”, cit.)
Le due teste fanno parte dell’ultimo periodo grafico di Arrigo Parnisari; periodo triste e oscuro, nel quale dell’anima dell’artista sopravviveva solo una fiaccata essenza. Spasimi d’una volontà di sopravvivenza creativa, disperata e istintiva, dettata da un insopprimibile moto dello spirito per giustificare la propria flebile esistenza. Così si legge in un brano autobiografico: “Enrico da tempo disegnava teste su temi immaginari e paesaggi immaginosi. Usava del segno come espressione grafica a linea pura, e sul tema di teste ne aveva disegnate duecento, duemila. Disegnava nei caffè, in treno, durante i viaggi di trasferimento ai quali lo obbligava il lavoro. Disegnava pervaso da uno stato ossessivo, nella volontà di fissare l’idea. Cercava soprattutto un ritmo, attraverso il quale gli oggetti si componevano, deformandosi. Lo ossessionava la presenza di teste, che disegnava trasfigurate, ma uguali, in una volontà sub-conscia di fissare l’idea in un tipo di testa. Erano teste solitamente riecheggianti i temi di antichi dignitari. Alcune erano oblunghe: avevano le labbra rinserrate e il profilo nobile. Altre invece erano deformate in sembianze caricaturali, a ricordo della caricature di Leonardo” (da Pazzo per forza pp. 140-141, in Testimonianza di un pittore, cfr. “L’arte, il tutto”, cit.)