Bruno Rosai nasce da una famiglia di antica tradizione artigiana. La sua precoce vocazione artistica lo porta nel 1925 a frequentare i corsi della Scuola Libera del Nudo presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. Nel 1927 si iscrive all’Istituto d’Arte di Porta Romana inserendosi in quell’ambiente artistico e intellettuale fiorentino intorno al quale si ritrovavano Ottone Rosai (di cui era nipote), Ardengo Soffici, Achille Lega, Mino Maccari. è qui che inizia l’educazione politico-artistica di Bruno Rosai, sotto l’egida di un dimesso populismo antiborghese, nell’esaltazione del primato toscano, che si farà apertamente sentire nelle prime opere giovanili. Nel 1929 è invitato ad esporre alla Mostra Regionale d’Arte Toscana dopo aver partecipato insieme a Carlo Carrà, Giorgio De Chirico, Giorgio Morandi e Mino Maccari ad una collettiva alla “Bottega del Selvaggio”. L’anno dopo, illustra il numero unico de “Il Rosai” insieme all’amico Berto Ricci, Dino Garrone, Edoardo Persico e Gioacchino Contri e sempre con Berto Ricci nel 1931 fonda L’Universale. Sono questi gli anni dell’allontanamento e dal divorzio con Ottone Rosai e la sua cerchia, lui stesso racconta: “Con lui ho mosso i primi passi. Passi decisivi, perché in qualche modo ero obbligato a lavorare dal di dentro, dal ‘gabbiolo’. Poi mi si è rivoltato contro” (G. Serafini, Bruno Rosai (catalogo della mostr), Firenze, Nardini, 1988, p. 13). Questa posizione segnerà una svolta decisiva nella vicenda artistica; comincia infatti ad interessarsi allo studio della matematica e della geometria, venendo così a precisare una componente fondamentale della sua personalità data da esigenze di razionalità e ordine, in rapporto ad una appassionata emotività. è del 1939 la prima personale organizzata al Lyceum; la mostra ha successo ma non ci saranno sviluppi, perché, in conseguenza del conflitto bellico viene richiamato come disegnatore all’Istituto Geogra-fico Militare.
Gli anni dopo la guerra segnano una generale revisione critica di tutta la sua attività di artista, con la rimeditazione delle avanguardie e i contatti con le nuove tendenze neorealiste discusse a Firenze alla Galleria Il Fiore, con Renzo Grazzini, Giunio Gatti e Leonardo Ricci. Sempre in questi anni intraprende la carriera dell’insegnamento presso l’Istituto d’Arte di Lucca. In questo ruolo egli promuove e sperimenta tecniche didattiche nuove, esponendo successivamente i risultati di questa esperienza in numerosi articoli a sfondo pedagogico apparsi tra il 1951 e il 1954 su numerose riviste. Ma anche il percorso artistico segue un nuovo sviluppo: sono anni di sperimentazione, di ricerca di un proprio linguaggio, abbandonandosi a suggestioni facilmente avvertibili nella lezione di Cézanne, nella sintassi cubista, fino alle vibrazioni del pointillisme. “Procedevo a tentoni, ma la cosa più importante, anche se mi faceva soffrire, era che ne avevo coscienza: pur invisibile, il traguardo era là ad aspettarmi. Prima o poi l’avrei raggiunto” (G. Serafini, Bruno Rosai - Fayyûm fiorentino (catalogo della mostra), Firenze, Polistampa, 1998, p. 14).
Anche sul versante espositivo la sua presenza è ormai costante alle più importanti mostre d’arte italiane e internazionali.
Nel 1960 ottiene la cattedra di Paesaggio e Tecnologia Pittorica all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Sempre isolato da ogni corrente e lontano dalle diatribe artistiche che si susseguono negli anni a venire, scompare il 24 dicembre 1986.
Nel 1988, si è tenuta a Firenze, a Palazzo Strozzi, una sua retrospettiva.
Le opere di Bruno Rosai si trovano in collezioni private e pubbliche, presso la Galleria d’arte moderna di Firenze e la Collezione del Comune di Manciano.
Il dipinto viene eseguito ai primi anni Cinquanta, all’interno di un periodo improntato all’insegna della sperimentazione, che non è solo opposizione stilistica al disadorno primitivismo fiorentino di Ottone Rosai, ma un nuovo modo d’interrogarsi in tema di percezione visiva. La visione monumentale, quattrocentista degli esordi, viene frantumata in scansioni geometriche che ricostruiscono il reale attraverso segmenti angolari. Una evidente influenza cubista, una esplicita riflessione su Cézanne, ma anche la continuazione di una ricerca in direzione postimpressionista che sfocerà poi, alcuni anni dopo in cromie luminose costruite da una miriade di tocchi di pennello (Il ritratto Costantini, 1953). Questo ritratto di donna si può collocare proprio nel momento di passaggio tra un’immagine ancora fortemente rivelata da un procedimento di scomposizione e ricostruzione cubista, meglio visibile in opere di poco precedenti (Rovine, 1949; Passerella, 1950), e l’inizio del nuovo procedimento pittorico fatto di piccole pennellate, controllato da una rigorosa attenzione agli effetti ottici determinati dalla vibrazione della luce sui diversi punti di colore.
Il dipinto datato 1951, si presenta costruito da una trama di segni che definiscono una sorta di architettura umana. Al disegno è affidato il ruolo costruttivo della figura, dove il colore, completamente assente nel fondo, s’inserisce a delimitare le pieghe del vestito ed a formare una tessitura cromatica entro la quale la figura sembra sia incastonata. La tavolozza nei suoi toni bassi fatti di terre e grigi è ancora quella delle opere precedenti, ma alcune pennellate rossastre sul volto attorno alle quali si articola il cangiante registro dei grigi, prefigurano la nuova svolta. S.T.