Nato a Firenze, trascorse l’infanzia e la prima giovinezza a Siena, dove frequentò l’Istituto d’Arte. A ventidue anni passerà su invito di Gianni Vagnetti all’Istituto d’Arte di Firenze, scoprendo per mezzo di Bruno Innocenti la plastica modernità di Libero Andreotti.
Nel 1930 e nel ’31 esporrà nelle mostre degli Avanguardisti toscani, e dal ’34 al ’40 ai Littoriali dell’Arte, alle mostre Sindacali regionali e nazionali. A Siena terrà nel ’39 la sua prima mostra individuale a Palazzo Patrizi, e di nuovo nel ’42 esporrà 36 sculture e 27 dipinti al Dopolavoro del Credito e dell’Assicurazione. Ancora in quell’anno partecipa a Firenze al Premio Pier della Francesca in Palazzo Strozzi, con opere sul tema della “Cecità operosa”, stabilendosi definitivamente nel capoluogo toscano. Spirito inquieto, dopo la guerra Salimbeni scoprirà la filosofia esistenzialista, il cui pensiero contribuirà ad assimilare pessimisticamente la “situazione-limite” dell’esistenza umana; umori che si riscontreranno nell’espressività tormentata della sua plastica, come i ritratti in terracotta di Lidia e Ritratto di Signora del ’46 che, nei loro sommovimenti plastici di desinenza impressionista, riflettono appieno le inquietudini dello scultore. E così concepito sarà anche il monumento all’Elettrice Palatina, al cui concorso Salimbeni partecipò e vinse, ma che nella sua lunga e dolorosa vicenda diverrà il movente d’una personale tragedia che si consumerà fino alla morte, senza che l’artista avesse potuto veder sistemata la sua opera.
Nel ’52 Salimbeni fu prescelto tra otto scultori italiani per il Monumento al Prigioniero Politico Ignoto a Londra, e il suo bozzetto esposto alla Tate Gallery sarà premiato, ricevendo anche l’elogio di Henry Moore. La sua progressiva ricerca approderà a una plastica sempre più essenziale, fino all’impiego del filo di ferro e altri metalli. Nel 1950 sarà alla XXV Biennale veneziana con la prima versione de la Donna con Ventaglio, e nella successiva edizione esporrà tre gessi, mentre nel ’58 verrà invitato con una sala personale. Vincitore nel ’55 del Premio del Bronzetto a Padova e nel ’57 del II Premio alla Mostra Internazionale di Scultura Città di Carrara, sarà presente alle Quadriennali romane del ’59 e del ’72. Nel ’61 e nel ’63 esporrà alle Biennali di Anversa e in altre importanti rassegne internazionali nel riconosciuto ruolo di scultore italiano tra i più moderni della sua generazione.
La Donna con ventaglio costituisce nella scultura di Raffaello Salimbeni un tema tra i più visitati. Ben tre saranno le versioni, tutte fusioni in bronzo a cera persa, tra le quali questa è l’ultima e la più piccola. La prima, del 1948-49, esposta nel ’50 alla XXV Biennale di Venezia, si diversifica dalla presente per un maggiore peso delle masse dovuto anche all’assenza delle asole sul ventaglio aderente al corpo della donna. Entrambe le versioni sono risolte in una plastica recante memoria della lezione giacomettiana, mentre del tutto diversa si presenta la versione intermedia del ’55 ottenuta con una membratura di longilinei elementi strutturali, al cui vertice è posto l’accessorio che dà il titolo all’opera.
Scultore figurativo, formatosi agli istituti d’arte di Siena e di Firenze, dopo lo spartiacque della guerra l’artista si interesserà alla filosofia esistenzialista europea e più in particolare a Jaspers, procedendo come scultore nell’approfondimento di un sunto plastico impressionista desunto da Medardo Rosso, già accennato nei primi anni Quaranta in ritratti in terracotta come Signora del ’43, e proseguito in quello di Lidia del ’46 e in altri di poco successivi. Pur non disdegnando ritorni temporanei alla pienezza delle masse, come nel gesso di Tatiana del ’47-’48, è in quegli anni che Salimbeni stabilisce il proprio referente espressivo nell’elaborato plastico di sintesi impressionista riguardante Giacometti. Seguirà un’ulteriore sintesi ottenuta con l’impiego di materiali metallici fino ad arrivare al filo di ferro, il cui concetto sarà così spiegato nel 1960 dall’artista: “Le mie sculture nascono dal ferro, dall’armatura stessa che non è più armatura come la intendevano gli scultori dell’Ottocento, ma diventa membratura, costruzione, movimento. Quello che appare sulla superficie delle mie statue è un fatto secondario: l’operazione che io faccio è di tirar fuori dal ferro l’intera ossatura della statua. È un po’ il contrario di quello che faceva Michelangelo: Michelangelo scavava la figura dentro il masso, io invece porto la figura alla superficie del metallo”.
“Le figure di Salimbeni – ha osservato Ornella Casazza – subiscono così un processo di marcata e libera stilizzazione che è aperta, come scrive Umberto Baldini (1986) alla rievocazione dei miti antichi come alla osservazione arguta della vita moderna: così la longilinea Donna sotto il casco e le estrose Figura di fronte al semaforo del 1958, così Icaro, il Gallo vittorioso […] la Donna con la collana, la Donna sdraiata, la Donna col ventaglio, costituiscono l’avvio a certi accenni surrealistici che divengono una sua amarezza di fronte all’alienazione dell’uomo”. È appunto questa amarezza che prenderà sopravvento in Salimbeni divenendo a sua volta alienazione, quando dopo le più che trentennali polemiche e le conseguenti dispersioni delle sue forze psichiche e fisiche nella difficoltosa realizzazione in marmo del monumento all’Elettrice Palatina, assisterà, ormai esaurito nella sua volontà di lotta, a quell’oscuro ostracismo che impedirà, lui vivente, l’allogazione della sua soffertissima opera.
Il concorso per un monumento all’Elettrice Palatina voluto nel ’45 dal primo sindaco della Liberazione Gaetano Pieraccini, era stato vinto da Salimbeni che aveva “fermato” la figura dell’ultima Medici in una gestualità riflettente il pensiero munifico di quel “patto di famiglia”, con il quale l’immenso patrimonio artistico di casa Medici sarebbe rimasto in perpetuo alla città di Firenze.
Dopo quasi un ventennio di fermo amministrativo, nel 1965 lo scultore poté effettuare la ricerca del marmo in varie cave apuane. Procedette poi allo sbozzo del blocco presso il laboratorio fiorentino Varlecchi, adoperando, nella successiva rifinitura, dei tasselli in gesso ricavati dal bozzetto per poter copiare fedelmente la resa di ogni particolare plastico. Un lavoro snervante, ma forse l’unico modo per garantire l’esatta trascrizione in marmo “curata in ogni particolare” dal modello in gesso, così come prescriveva l’articolo 4 del bando di concorso. Salimbeni vi lavorò fin verso la metà degli anni Settanta, riuscendo in un risultato di grande suggestione: una statua, come ebbe a scrivere Umberto Baldini, che si ergeva “cristallina” al di sopra di tutte le polemiche, e opera con la quale, notò ancora De Juliis, “Salimbeni oltrepassa le pieghe della veste, della pelle e dei muscoli, e giunge all’anima del personaggio, realizzando un’immagine quasi evanescente”. Una resa che non sarà sufficiente all’allogazione del monumento, ché le autorità comunali e di soprintendenza rilanciarono via via nuovi dubbi circa la sua possibile collocazione. Un’assurda, inspiegabile condizione nella quale l’esistenzialismo di Salimbeni coglierà la “negatività” dello “scacco” jasperiano: impossibilità di trascendenza da situazioni che, come riferisce Abbagnano, Jaspers enunciava come “immutabili, definitive, incomprensibili, nelle quali l’uomo si trova davanti a un muro invalicabile”. Prendendo atto del proprio fallimento, l’artista sopravviverà sempre più debilitato fino al 1991. Il monumento, grazie all’interessamento di alcuni estimatori, troverà quattro anni dopo una sua plausibile ma non felice collocazione nello spazio oltre una cancellata tra le Cappelle Medicee e la Chiesa di San Lorenzo.
“La mia mano è fatta soprattutto per la scultura”(S. Corsi, Note sul disegno e sulla pittura di Raffaello Arcangelo Salimbeni, in Raffaelo Arcangelo Salimbeni 1914-1991, catalogo della mostra a cura di S. Corsi, aprile-giugno 2004, Siena 2004, p. 45), così era solito presentarsi Raffaello Salimbeni decretando poca passione per il disegno, che rimane tuttavia oggi una delle pratiche attraverso la quale è possibile avere una testimonianza più precisa dell’evoluzione stilistica del maestro. I primi fogli ci mostrano infatti la formazione accademica dello scultore e la scelta dei soggetti sottolinea l’attenta osservazione della realtà, tradotta in chiave intimistica. Il suo lavoro grafico acquista col tempo maggiore spontaneità nel tratto e arriva verso la fine degli anni quaranta a individuare nella figura umana il tema verso il quale mostra un grande trasporto come si può notare nel disegno della collezione Il Renatico dove un’elegante figura femminile, assorta nei suoi pensieri, viene descritta con grande sensibilità dal maestro per mezzo di una linea leggera, eseguita con un pennino che lascia sottili tracce d’inchiostro, tratteggiate, intrecciate, spesso attorcigliate con ripensamenti e riflessioni che mostrano uno stile decisamente espressionistico del maestro. In questo foglio Salimbeni lavora in forma tridimensionale e sembra plasmare la materia, più che definire i contorni di un disegno, che si modifica ad ogni suo passaggio e tocco. Per Salimebni il disegno è una sorta di estensione della memoria poiché serve a fissare, per mezzo di schizzi rapidi, immagini ed emozioni, prima che possano perdersi per sempre. L’evoluzione artistica dello scultore vedrà il disegno diventare negli anni cinquanta più simbolico e anche le figure umane saranno presentate con una esasperazione delle loro forme. Negli anni sessanta egli tende invece verso la geometrizzazione della figura e infatti articolati motivi meccanici riempiono i fogli, anticipando la realizzazione delle sculture. Negli ultimi anni le figure umane scaturiscono sempre più dall’intreccio delle linee, quasi spettrali, descritte con un segno nervoso che esprime tutto il dolore che stava vivendo il maestro, costretto ad una forzata solitudine e inoperosità a causa della grave malattia che lo ha condotto alla morte.