Nato nelle campagne lucchesi, Sergio Scatizzi trascorre la sua prima giovinezza in Valdinievole. Tredicenne, durante un anno trascorso a Napoli scoprirà la vocazione all’arte e qualche anno dopo, nel ’36, scoprirà a Roma i valori della pittura tonale entrando in contatto con Mafai e la Raphael, Stradone e Cavalli. Accolto nei circoli culturali facenti capo a Giovanni Comisso e al poeta De Libero, Scatizzi inizierà anche un proficuo rapporto di amicizia con Filippo De Pisis. Dopo un viaggio a Parigi, l’artista tornerà a Montecatini, dove nel ’49 terrà la sua prima mostra personale.
Nel ’50 esporrà alla XXV Biennale di Venezia, vincendo nello stesso anno il primo Premio di Pittura Bagni di Lucca presieduto da Carlo Carrà. Nel ’51 conosce a Firenze Ottone Rosai, Capocchini, Pregno, Tirinnanzi, e nel capoluogo toscano si trasferirà quattro anni dopo, debuttando con una personale alla Galleria Spinetti presentato da Nino Tirinnanzi.
Nel 1958 una panoramica della sua opera fu esposta alla Strozzina, e l’anno dopo sarà con una personale alla Galleria Il Fiore, presentato da Giovanni Comisso. Importante sarà il rapporto con Piero Santi, titolare della Galleria L’Indiano, che durerà fino al 1969. A Roma Scatizzi aveva esposto nel ’57 alla Galleria La Medusa presentato da Luigi Baldacci, e nel ’61 alla Galleria Chiurazzi, mentre nel ’65 sarà invitato con cinque dipinti alla IX Quadriennale.
Nel ’67 l’artista si aggiudicherà a Firenze il Premio del Fiorino, nella cui rassegna sarà invitato l’anno successivo con una mostra antologica e di nuovo nel ’71 con una sala personale. Nel 1968 ha esposto negli USA, all’Asheville Art Museum in North Carolina, e nel seguente decennio si succederanno numerose mostre in Italia: dalle personali di Palermo e di Salerno all’ampia rassegna alla Galleria Medea di Milano nel ’71; da quella fiorentina de La Gradiva con prefazione di Raffaele Monti, storico dell’arte che della pittura scatizziana diverrà esegeta ricorrente, a un’antologica nel ’76 organizzata dall’Accademia di Belle Arti di Carrara e curata da Pier Carlo Santini, dove per la prima volte verranno esposte le “carte dipinte”. Seguiranno negli anni Ottanta altre grandi rassegne, come la personale in Palazzo Strozzi nell’82 con presentazione di Ragghianti, e negli anni seguenti le esposizioni romane alle Gallerie La Gradiva (1983) e La Barcaccia (1984); nel 1986 esporrà al Castello di Mesola in una mostra dedicata alla natura morta presentata da Vittorio Sgarbi. Una importante rassegna sui suoi “anni dell’informale”, curata da Carlo Falciani, verrà allestita nell’inverno 1997-98 a Palazzo Pitti. Da ricordare anche le ricorrenti esposizioni alla Galleria Il Fiore di Montecatini e alla fiorentina Galleria Pananti.
Il dipinto, risalente ai primi anni Cinquanta, rientra nella fase informale del maestro. Un paesaggio luminoso, che nelle sue calde paste cromatiche reca in sé non pochi caratteri della futura pittura scatizziana, come le gialle aggrumazioni di materia che ricorreranno nei decenni a venire in composizioni floreali e in evoluzioni d’altri paesaggi. Altro “brano” in “divenire” si può leggere in quel “taglio” ocra e marrone in basso al dipinto, che dal decennio successivo diverrà basilare accordo di quelle “terre volterrane” caratterizzanti per un buon lustro uno dei più interessanti cicli informali del maestro. Un tema, quello delle “terre”, ripreso con nuove pulsioni materico-prospettiche in una più recente serie di dipinti, nei quali Raffaele Monti ha saputo individuare “elementi di natura organizzati in un inalterabile organismo minerale, come le rocce che appaiono sulle tavole di alcuni fiorentini del ’400 ”.
L’opera qui pubblicata venne eseguita dall’artista nei suoi ultimi anni trascorsi in Valdinievole, quando aveva già conosciuto a Firenze Rosai, Capocchini e Tirinnanzi.
Scatizzi aveva fatto il suo ingresso nel mondo artistico fiorentino con quella nota di riservatezza che ne sottolineava l’innata aristocraticità, e che come un sesto senso lo terrà fuori dalle diatribe artistiche cittadine. Lo stesso itinerario espositivo faceva di questo artista un caso a sé, poiché da una prima mostra personale tenuta a Montecatini nel ’49, era passato l’anno successivo ad esporre alla XXV Biennale di Venezia. Diversa era anche la sua genesi artistica, dalla quale il pittore era sortito per un itinerario formativo tutto suo, trascorso fin dal ’36 a contatto con le esperienze della scuola romana e del mondo artistico e letterario della capitale, per poi passare all’ambiente dei pittori italiani a Parigi, frequentando particolarmente De Pisis.
Scatizzi aveva intrapreso la pittura di paesaggio guardando alla lezione di Soffici, ma già dagli anni della guerra aveva intrapreso una sua strada optando per una resa cromatica esaltante la materia che, attraverso la Raphael, conduceva alla lezione di Soutine. Un “plasma cromatico” – come poi lo definirà Ragghianti – che assumeva “parossismi di agitazione e persino di sconvolgimento […] per tradurre un empito che confina con la violenza”.
Concorrevano, quali attendibili riferimenti a tale peculiare visione (oltre al citato apprezzamento cromatico della scuola romana) anche la frammentazione del segno operata da De Pisis, dalla quale Scatizzi passerà per scardinare residuità analitiche di elementi, bruciandone i più macroscopici riferimento visivi fino ad arrivare nel ’47 ai risultati de La cava di Maona, opera che aveva posto il giovane artista tra gli anticipatori delle esperienze informali. Un impegno che non coinvolgerà Scatizzi in alcun dichiarato schieramento, poiché, come al solito, la sua pittura procedette fuori da ogni gruppo, isolata voce, anche se di affine coerenza a quella temperie. E l’artista procederà nei successivi decenni nei parametri di quella coerenza verso la trattazione poetica della materia, reinserendo nel suo “plasma cromatico” una sommossa percezione delle cose, capace di suggerire lontananze e rapporti. Paesaggi, piccoli nudi e ritratti, fiori e nature morte: lacerti di pura poesia con i quali la pittura scatizziana esprime il suo inconfondibile ruolo, esercitato, come ha detto Ragghianti, con quell’“indipendenza veggente” che ha posto l’artista tra i più interessanti maestri del nostro tempo.
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