Nato da una famiglia della media borghesia, Nino Tirinnanzi crebbe nei riferimenti culturali del padrino e compaesano Domenico Giuliotti, scrittore cattolico, presso il quale ancora bambino conoscerà Ottone Rosai. Portato per talento naturale all’arte, nel ’36 Nino si trasferì a Firenze per frequentare l’Istituto d’Arte di Porta Romana, ma i successivi incontri con Rosai lo indussero ad abbandonare gli studi per divenirne allievo. Già forte disegnatore, il giovane assorbì gli insegnamenti del maestro virandoli in tensioni meno cupe, avvicinandosi ai risultati di certe opere rosaiane del decennio precedente.
Arruolato, Tirinnanzi fuggirà da Rodi invasa dai tedeschi passando in Turchia, poi in Libano, in Palestina e in Egitto, tornando a Firenze solo nel ’46. La sua attività espositiva riprenderà nell’anno seguente alla Galleria Il Fiore, esponendo poi nel ’48 alla Galleria Chiurazzi di Roma presentato da Carlo Emilio Gadda. Nel 1950 l’artista si aggiudica al Fiorino di Firenze il Premio della Critica, e a Venezia sarà invitato alla XXV Biennale. Nel ’52, presentato in catalogo da Renzo Federici esporrà alla Galleria San Fedele, e nel ’53 si aggiudicherà il Premio Olivetti al V Premio nazionale Golfo della Spezia. L’anno seguente esporrà ancora a Milano in una personale alla Galleria Montenapoleone presentato da Pier Carlo Santini, e nel ’55 verrà compreso nell’ambito della mostra pratese di Ragghianti Sessanta maestri del prossimo trentennio: quindi esporrà ancora a Roma in una personale alla Galleria Albert ,presentato da Mario Luzi.
Quel decennio fecondo di risultati si chiuderà nel ’59 con l’aggiudicazione del Premio Nazionale Manifesto promosso dal “Popolo” di Roma, mentre il nuovo si aprirà ancora a Roma con l’invito alla Quadriennale. Altre importanti mostre personali saranno tenute nel ’62 a Firenze alla Galleria S. Croce, con volume monografico di Marco Valsecchi, e a Milano nel ’65 con una presentazione di Alfonso Gatto. Dal ’69 inizierà il rapporto con la Galleria Pananti di Firenze, presso la quale l’artista tornerà a esporre nel ’73 e nel ’74 presentato da Montale, nel ’78 da Strati, nell’82 con un’antologica di disegni, la cui monografia venne curata da Ragghianti. Nel 1994 ancora un’antologica di dipinti con presentazione di Mario Luzi. Tra le varie commissioni sono da ricordare il pannello Porta a S. Giorgio, ora alla Cassa di Risparmio di Firenze e quattro pannelli per le sedi Rai a Roma. Per la pittura religiosa dipingerà nel ’61 il grande affresco per la cappella di S. Anna a Greve in Chianti; e, vent’anni dopo, la pala d’altare per la chiesa del Nome di Gesù a Firenze.
Ad appena tredici anni Nino Tirinnanzi si era trasferito a Firenze per frequentare l’Istituto d’Arte, e a Firenze rimarrà tutta la vita senza tuttavia dimenticare le radici grevigiane che costantemente ritorneranno nella sua pittura, come testimonia tra altri numerosi esempi questa stessa opera. Dipinti dove spiccano articolati volumi di case coloniche, poggi verdi d’erbe e di ulivi, con la sovente aggiunta di ragazzi che giocano in mezzo a una strada. Ingredienti di cucina rosaiana, si dirà, come più volte è stato detto. E, come già risposto, Tirinnanzi obbietterà che quella campagna appartiene geneticamente più al suo “sangue” che non a quello di Rosai. Corrono tra questi parallelismi certe sostanziali differenze che Alfonso Gatto si provò ad analizzare, distinguendo, oltre la codificata facile apparenza, due diverse distinte nature pittoriche: “Rosai […] addentrò la terra, le case, le vie, i paesi, le architetture, gli uomini in un ‘interno’ predisposto al suo significato interiore; Tirinnanzi invece accoglie una natura aperta, dispersiva, vivente. Corre dai suoi quadri questa gaiezza fenomenica”. Una differenza rintracciabile anche nella diversità delle loro nature umane, registrabili nei gradienti caratteriali del lungo rapporto tra allievo e maestro, sommosso da pulsioni attrattive e da reciproche anche se passeggere ripulse.
Anche in quest’opera densa di atmosfera si colgono i nessi di una gioiosa, estroversa liricità, frutto di quella “natura aperta, dispersiva, vivente” che, a ben guardare, non attinge a una pura realtà visiva quanto a una particolare dimensione che ne rimanda una sua celata essenza. Ecco allora come potremmo spiegare la natura di quei colori, così ovvi nella loro viva apparenza ma pur così irreali come fossero stati accesi da un sogno. Sembra, questa “gaiezza fenomenica” di Tirinnanzi, la subconscia reinterpretazione delle atmosfere della sua infanzia: i flou grigi e verdi degli olivi, le ocre delle case, e quel rossorosa che a tratti affiora – più evocato che vero – che pare recare nelle sue scalature l’eco fantastica d’un io bambino.
Un percorso pittorico che Nino Tirinnanzi ha compiuto in un certo senso a ritroso, dopo aver depurato la sua discendenza rosaiana d’anteguerra nella successiva stagione impostata a un rigore cromatico e strutturale, come La chiesa del Cestello del 1954, ora in Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, o di altri altrettanto essenziali scorci cittadini, nei quali il sunto costruttivo si condensa in rastemate gamme di colori, dalle ocra ai marroni e ai bianchi, in un sublime individuale scandaglio non dimentico di quel ristretto numero di artisti “costruttori” dell’illustre generazione precedente: da Sironi a Carrà, da Celestini allo stesso Rosai. Ma forse nessun artista seppe così ben cogliere, come il Tirinnanzi degli anni Cinquanta, la sintesi del carattere “spirituale”, agro e possente, delle strutture fiorentine, fossero esse monumenti o comuni muraglie. L’artista seppe evocarne sulla tela l’oscuro senso della storia, il simbolismo metafisico di apparente eternità a fronte dei cicli umani che tra esse si eran succeduti.
Nel suo percorso, Tirinnanzi fervido e abilissimo disegnatore preciserà anche le sue doti di ritrattista, cogliendo fisionomie di letterati e di artisti, tra cui i celebri ritratti di Rosai e di Montale, o altri di gente comune, antichi compagni di strada o fugaci personaggi di vita. Ritratti e figure compiuti tramite una precisa e talvolta virtuosa esecuzione di segno, da cui è fiorita nel tempo una più accesa visione cromatica. Così nei paesaggi degli ultimi decenni di cui riferivamo, evocanti forse, idealmente, quel suo libero mondo di ragazzo dominato dalla figura di Domenico Giuliotti, compaesano e suo padrino.
Giuliotti era stato, e lo era ancora a quel tempo, tra i massimi referenti della cultura cattolica europea, già sodale di Tozzi e di Papini, uomo mitissimo quanto scrittore terribile, pervaso da un fuoco di radicale ortodossia religiosa. Il piccolo Nino vi era cresciuto accanto, e proprio in casa sua aveva conosciuto Ottone Rosai, al seguito del quale poi, a Firenze, doveva non senza dolore farsi uomo.
Non poche dovettero essere le preoccupazioni nella casa grevigiana dei Tirinnanzi, se nel dicembre del ’37 l’anziano padrino così ammonirà dalla pagine del Frontespizio in una folgorante poesia di tipica terribilità giuliottiana, quel “suo” ragazzo prodigio che, cresciuto in fretta, si andava “ingaglioffendo” tra i tentacoli della città: “Ragazzaccio, ti voglio bene, ma / se fossi tuo padre, quando scatti e vuoi quattrini e libertà / ti sbatterei nel muro e poi / ammirerei, di nascosto, / la tua detestabile prepotenza. / Sei, quattordicenne, / un remboiano “enfant terrible”. Vuoi giungere sulla cima, da te, / accoppando le guide, / guidato solo dall’orgoglio. / Vi arriverai? Non fermarti, / non voltarti, sali. / In cima non v’è un alloro, ma una croce. / Se vuoi la gloria, quella è la gloria. / E devi restarvi crocifisso”.
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Ottimo disegnatore Nino Tirinnanzi riesce in questo interessante paesaggio con Veduta di un casale toscano a fornirci elementi determinanti del suo scorrevole, idilliaco, sensibile, seducente e fruibile linguaggio. E' evidente che manca nell'artista la voglia di tendere verso sperimentalismi di natura intellettualistica o avenguardistica, la sua ricerca fonda infatti le radici nella tradizione pittorica toscana: dai grandi maestri primitivi dai quali recupera il colore, la luce e il neo nato realismo, alla entusistica e piena adesione all'arte di ottone Rosai. Nel dipinto di Tirinnanzi si individua un lavoro teso ad una crescita graduale che nasce da un succedersi di studi preparatori e dalla revisione continua del lavoro compiuta in seguito a ripensamenti e integrazioni che portano all'equilibrio e all'armania delle singole parti. Sono le colline del Chainti, di Greve, aperte su ampi orizzonti, curate e ordinate con i loro vigneti e oliveti, che il maestro traduce con grande libertà propsettica, mantenedo un controllo tra il raziocigno e l'immaginazione. Nino Tirinnanzi riflette nelle sue vedute quella schietta genuinità che lo contraddistingue anche caratterialòemnte e che lo porta anche ad essere sfacciato ed esuberante nelle realizzaziomne delle sue figure distribuite nelle piazze fiorentine, ma anche nostalgico e distante soprattutto nei paesaggi che alla luce del crepuscolo mattutino, retsano immobili e silenti in una sorta di solitudine che attende il risveglio operoso dell'uomo.
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