Il padre era un semplice scalpellino proprietario di una piccola bottega di marmi. Il giovane Jorio per mantenersi agli studi, prima alla Scuola d’Arte pistoiese di Fabio Casanova, poi all’Istituto d’Arte di Firenze (allievo di Bruno Innocenti) comincia molto presto a maneggiare gli arnesi del padre, adattandosi ai lavori più umili. Nel 1942 è chiamato alle armi e inviato sul Fronte Balcanico. Pochi giorni dopo l’8 settembre 1943 è fatto prigioniero dalle truppe tedesche; da lì l’avvio di una lunga prigionia, vissuta nei campi di concentramento in Ungheria, in Austria, poi in Germania. In questi luoghi oppressi dalla morte fisica e morale, riesce a sopravvivere, a restare vivo alla tragedia che inevitabilmente segna il suo essere uomo e artista.
Nel 1946 il ritorno a casa e la ripresa dell’attività creativa. Fa un po’ di tutto, ancora una volta le esigenze della sopravvivenza determinano le scelte. Nel 1951 trova lavoro nella fonderia Michelucci a Pistoia, qui l’incontro con l’architetto Giovanni Michelucci, incontro determinante per il suo percorso artistico che darà subito avvio ad una intensa collaborazione. Da questo rapporto nascono infatti i primi Crocifissi che trovano posto nelle chiese realizzate da Michelucci (Parrocchiale di Larderello, Chiesa della Vergine a Pistoia, Chiesa di San Giovanni a Firenze).
Emblematiche, laceranti opere, che alla emotività mistica contrappongono un’aperta e sofferta carica d’umanità, un grido dell’uomo (e anche dell’artista) scritto in brani di verità naturalistica ma a stretto contatto con acri deformazioni espressionistiche. Il modello era forse la scultura di Giovanni Pisano, racchiusa nelle chiese romaniche pistoiesi dove il giovane Vivarelli aveva indugiato, attratto dal fascino e dalla carica emotiva propria della scultura trecentesca.
Nel 1955, in occasione dell’esposizione fiorentina su Frank Lloyd Wright, Jorio Vivarelli conosce l’architetto americano, curatore della mostra, Oskar Storonov. Un incontro che si trasforma in un solido rapporto di amicizia e di lavoro. Con Storonov, Vivarelli conosce e affronta i problemi della scultura inserita nelle città e nelle aree urbane. Nascono così le opere che troveranno posto nelle grandi piazze di Philadelfia e Detroit e porteranno l’artista pistoiese nel Michigan per sei anni. Dall’insieme di conoscenze e fermenti stimolanti propri di quel periodo, così febbrile per l’artista, nasce il Gruppo intrarealista, presentato ufficialmente nel 1967, a Firenze, a Palazzo Strozzi, con l’intento e la necessità “di esprimere qualcosa di nuovo e di dirlo in modo diverso”.
Parallelamente ad una assidua attività didatica presso l’Istituto d’Arte Petrocchi di Pistoia, intrapresa già nel 1959, Vivarelli è impegnato negli anni seguenti in numerosi ed importanti eventi espositivi in Italia e all’estero. Esegue opere di grandi dimensioni: le fontane di Philadelfia (Le ragazze toscane, 1966, Adamo ed Eva, 1967, il bozzetto vincitore del Concorso Internazionale per la fontana di Piazza Kennedy, Riti di Primavera, 1964, poi mai eseguito), la fontana per lo Stevens College di Columbia, Missouri (Le bagnanti, 1967), il monumento a Giacomo Matteotti (Memoria storica, 1974) nel Lungotevere a Roma, il sacrario ai caduti di tutte la guerre (Monito, 1968) per il Cimitero comunale di Pistoia, il monumento ai caduti (Il sacrificio, 1979) per il Parco Monumentale di Fognano (Pistoia), la vasca per la Cassa di Risparmio di Prato (Scultura, 1986), il monumento di Nagasaki (Inno alla vita, 1987). Agli inizi degli anni Settanta in collaborazione con il Premio Pistoia-Teatro esegue il busto in bronzo di alcune attrici e attori più importanti del teatro italiano del secondo Novecento; la maschere in bronzo di questi ritratti, costituiscono oggi un “museo” al teatro Manzoni di Pistoia.
Nel 1989, a Lussemburgo si è tenuta una grande Personale con sculture, disegni e grafica, allestita nella Sala Vivarelli CFM, sala a lui intestata.
Jorio Vivarelli vive e lavora nella sua casa-studio progettata da Oskar Storonov, nella campagna appena fuori Pistoia. La sua interiorità creativa continua attingendo sempre tra le vicende dell’esistenza umana, con una pratica scultorea che è data dal levare, dallo scavo della materia per ritrovare e far affiorare un’interiorità, quale anima pulsante della vita. Una sorta di rivincita, di trionfo, ma anche una testimonianza di dramma e documento di una tragedia che è esplosa e che soltanto per una forza ed una volontà superiore, seppure umana, si è tramutata in riscatto.
Si tratta di uno studio in bronzo eseguito dall’artista nel 1971, per il monumento al Sindaco Walter Jozzelli commissionato dal Comune di Monsummano Terme. L’opera nasce per essere in rapporto con uno spazio architettonico, in questo caso una piazza, fruibile quindi da un’intera comunità. L’avvio dialettico tra invenzione scultorea e il suo inserimento monumentale in aree urbane, si concretizza nei primi anni Cinquanta, con l’apertura alla cultura europea, mediata dall’incontro con Le Corbusier e dall’amicizia con Oscar Storonov. In effetti le sculture di Jorio Vivarelli sono pensate per stare in mezzo alla gente; dialogano con un’oratoria severa, ricca di messaggi umani ed etici, espressa e stilizzata in un linguaggio stilistico quanto mai aderente alle necessità espressive della materia e del mezzo. I richiami culturali sono tanti, dall’arte dei primitivi all’espressionismo novecentesco, all’amore per Rodin e per Bernini, poiché la vicenda di un artista si realizza sempre in un contesto che non è solo un repertorio di modelli, ma è un tessuto di fatti, di idee, di esperienze, di storia.
Tutta l’opera di Vivarelli nasce ed è guidata da un sentimento appassionato per la vita, anche i titoli delle sue sculture sono il riflesso di questo colloquio concitato con l’esistenza.
Il tema “vitale” proprio di questo bronzo, è particolarmente ricorrente alla fine degli anni Sessanta e l’inizio del nuovo decennio, quel periodo che Ragghianti individua come quello delle “gemmazioni”. Secondo il critico, infatti, a partire dal 1967 con Il marcio è alla radice, appaiono nelle opere dell’artista, delle protuberanze simili appunto a gemme, motivo ricorrente anche nella stessa Un frutto della vita. A questo vitalismo fanno eco alcuni anni dopo le sculture Athanor, il ventre della madre, terra, sole, luna (1978-79), e L’uovo filosofale contenitore della vita (1978-79). “Le gemmazioni sono una metamorfosi vegetale della vita che esplode nelle primavere … Come si spinge all’interno dei corpi e ai loro gangli vitali, l’artista si addentra nella storia risuscitando o reinventando antiche sedi e condizioni d’illimitata contemplazione, od anche di sacrale evocazione del mistero dell’essere” (C.L. Ragghianti, Presentazione, in Jorio Vivarelli, Pistoia, Etruria Editrice, 1991).
In un involucro avvolgente che si erge verso l’alto, si libera da uno squarcio uno stelo con un apice gemmato: il frutto della vita, espresso mediante una sintesi formale e nel suo contenuto più viscerale, una vita colta nel momento sacrale del suo eterno evento.