Nel 1961 entra nella scuola di Belle Arti della Universidad de Los Andes, a Bogotà dove si laurea nel 1964.
Nel 1962 è in Italia, dove frequenta per un anno l’Accademia di Brera a Milano con Gianfilippo Usellini.
Torna in America Latina e vive fino agli anni Ottanta, tra Colombia, Venezuela e Brasile. Nel 1964, ottiene il primo importante riconoscimento per il suo lavoro, vincendo il I Premio nel Concorso Nazionale di Pittura Croydon in Colombia, frequenta i corsi post-universitari con il maestro Guglielmo Wieddeman e nel 1966, viene invitata ad esporre al IV Salone Nazionale d’Arte Moderna di Bogotà.
Nel 1980, dopo aver vissuto diversi anni tra il Venezuela e la Svizzera, si trasferisce a San Paolo del Brasile, dove lavora con il maestro Antonio Vitor. Qui esporrà al VIII Salone di Riberao Preto, nel 1983 e realizzerà la prima mostra personale alla Galleria Chroma, nel 1984.
Dal 1985 si stabilisce definitivamente in Italia, a Milano, sognando di poter andare a vivere nella campagna senese dove attualmente risiede.
Continuano comunque i viaggi nella sua terra natale, nella quale parteciperà nel 1988, alla mostra 3 Decadas de Arte Uniandino a Bogotà.
Dagli anni Novanta Cristina Pavia espone di frequente in Italia, partecipando soprattutto a mostre collettive, perché, come afferma la stessa l’artista “mi piace l’idea del gruppo”; dunque, nel 1991, partecipa a Logos ’91 Mostra Internazionale d’Arte Contemporanea di Ricerca, svoltasi a Padova, nel 1995; a Milano alla Mostra collettiva di Monotipi; nel 1996, Milano, espone alla Mostra collettiva di Palazzo delle Stelline e alla Mostra collettiva Centro Culturale Bertold Brecht; in questi anni realizza solo due personali, la prima, a Milano, nella Galleria delle Ore la seconda, a Firenze, alla Galleria d’Arte Mentana. Nel 1997 è in Svizzera invitata a far parte di una collettiva di tre artisti a confronto nella Galleria Le Vieux Bourg di Losanna. Tornata a Milano, nel 1998, le viene proposta una nuova mostra collettiva al XVIII Congresso Nazionale di Psicosintesi e un invito a Naxos (Grecia), per partecipare ad una mostra collettiva con otto artisti italiani.
Cristina Pavia si è sempre confrontata con le diverse tecniche del pastello, dell’acrilico, dei colori ad olio e dell’acquerello. Dopo una partenza figurativa, l’abbandono della figurazione è stato pressoché totale ed il riferimento è stato quello per la natura vissuta ed intesa nel suo pulsare vitale, a tal proposito l’artista afferma: “Tantissime idee vengono nella mia mente quando scopro un segno nella natura. Mi piace leggerlo, toccarlo, portarlo nelle mie tele. è come se si instaurasse un rapporto, un dialogo, uno scambio: sento la necessità di restituirlo dipingerlo, perché così facendo mi sembra di aver saputo cogliere le indicazioni di questo messaggio” (cfr. C. Pavia, Documento inedito, n.d.).
La sua composizione si sviluppa da un nucleo centrale pulsante che, ritorna costantemente in tutte le sue opere, ora sotto forma di una sorta di gomitolo, ora, sotto forma di raggiera dalla quale si parte la forma. Si tratta, in prima istanza, di un vero e proprio recupero di una sensibilità primigenea del femminile, dove il potere metaforico di questi nuclei di base rimanda immediatamente alla vita, che appunto si sviluppa da un nucleo fetale, e dall’altro alla struttura formale delle momias (mummie), della cultura precolombiana rinvenute in varie necropoli. La loro posizione è fetale, raccolta: sembra voler sottolineare che vita e morte finiscono per toccarsi.
Così, anche i suoi “esercizi di memoria”, oli su lino grezzo, o gli oggetti realizzati con corda, tessuto garza limone ed inchiostri, ci riportano allora ad una memoria ancestrale e permanente che vuol ricondurci agli interrogativi di base della nostra esistenza; la forza dall’artista sta, nella capacità di trasmettere, attraverso un racconto che nasce “dal di dentro”, un’emozione esistenziale con una passione tradotta da gesti ampi e liberi, segni e colori coinvolgenti, che riflettono un’intensità emotiva primordiale ed autentica, condizionata dalla cultura d’origine, quella appunto colombiana.
Nell’opera in questione, del 1997, realizzata a matita e carboncino, l’artista sfrutta la mancanza della valenza espressiva del colore, per affidarsi completamente alla forza del segno vitale ed istintivo, il quale, segue un movimento rotatorio che è al tempo stesso centripeto e centrifugo, sviluppando così un interscambio incessante dall’interno all’esterno e viceversa.